Nasce prima il mercato, e l’azienda ci si adatta, o è l’azienda che crea il mercato?

27 febbraio 2020

Una questione centrale nella strategia aziendale è la relazione tra azienda, dunque anche (se non soprattutto) la sua organizzazione, e ambiente. Fino ad oggi le principali teorie e la maggior parte delle prassi consolidate, partono dall’assunzione che le organizzazioni debbano adattarsi ad un ambiente strategico ‘dato’ e che fare strategia significhi principalmente gestire questo processo di adattamento con successo.

“In principio era il mercato” affermano in sintesi la maggior parte degli studiosi e consulenti che si occupano di strategia. Il mercato di conseguenza è pre-determinato nel senso che rappresenta un’origine alla quale tutti gli attori possono far riferimento; esso è “lì” indipendentemente dal fatto che le organizzazioni siano anche esse “lì”.

Ad esempio Michael Porter, accademico ed economista statunitense diventato famoso per i suoi contributi alla Corporate Strategy, affermava che la struttura di un mercato è qualcosa che esiste in modo oggettivo:

La struttura del mercato ha una forte influenza nel determinare le regole competitive del gioco così come le strategie disponibili all’azienda. Le forze fuori del mercato sono significative soprattutto in senso relativo poiché le forze esterne influenzeranno tutte le aziende del mercato.”

Le ovvie conseguenze di questo paradigma sono quelle teorizzate e praticate da quasi tutte le aziende:

  1. Essendo il mercato, ambiente nel quale l’organizzazione dovrà muoversi con successo, pre-esistente, l’organizzazione si deve adattare ad esso.
  2. L’azione del management è quella di assicurare il continuo processo di adattamento con le opportune metodologie di Change Management. Queste partono dal presupposto, più o meno esplicito, che l’organizzazione sia una “macchina” i cui stati sono determinati e determinabili e il conseguente cambiamento realizzabile.
  3. Il successo, o l’insuccesso, dell’organizzazione saranno esclusivamente conseguenza della comprensione del punto 1 e della corretta esecuzione del punto 2 sotto la totale responsabilità del manager e dei collaboratori talentuosi, che hanno già operato con successo altrove, di cui si circonderà e che avrà disseminato nell’organizzazione.

 

 

Vi sono però numerose evidenze che non confermano queste assunzioni e le relative conseguenze:

  1. Esistono molti mercati che prima dell’azione di un’azienda, e dunque della sua organizzazione, semplicemente non esistevano. Il caso più famoso è quello dello smart phone, inesistente prima dell’introduzione dell’iphone, ma analogamente è accaduto per l’automobile, per la radio, le bibite non gassate, il caffè in capsula e molti altri ancora. Da qui il sospetto, se non la certezza, che a nascere per prime siano le organizzazioni e sono loro che creano i mercati, non viceversa.
  2. L’dea originale alla base del management era che ci fosse bisogno di un’azione di ‘comando e controllo’ organizzativo senza la quale l’organizzazione si sarebbe fermata o sarebbe andata a sbattere da qualche parte. Data per certa l’azione e il suo risultato, vi era analoga certezza che facesse parte dell’azione anche la progettazione del cambiamento e la sua esecuzione. Purtroppo così non accade, come tutti i rapporti sui programmi di cambiamento rivelano in misura sempre maggiore. Per quanto la si voglia lusingare e incentivare o redarguire e punire l’organizzazione non “cambia” a comando e a nulla servono i trucchi e le trovate dei consulenti o accademici del momento che declamano di avere trovato il segreto di come farlo.  
  3. Di conseguenza se il mercato non pre-esiste all’azienda e l’organizzazione non cambia così facilmente come si spera, a che servono i manager e i talentuosi collaboratori alla cui ricerca si dedicano tempo e risorse? Se lo stanno iniziando a chiedere anche i consulenti di grido (vedere il rapporto “E’ tempo di mandare in pensione il titolo di manager?” e l’articolo di Harvard Business Review “Perché competere per nuovi talenti è un errore”).

Come sempre, laddove una prospettiva non riesce a dar conto della realtà, conviene cercarne un’altra. In questo caso ci viene in aiuto la Teoria Generale dei Sistemi e le sue ramificazioni nella Sociologia.

Dalla prospettiva che questa ci propone l’organizzazione è considerata un sistema ‘non-banale’ ovvero un sistema le cui operazioni in qualsiasi momento dipendono da quelle precedenti (a differenza di quelli ‘banali’, come ad esempio un qualsiasi motore a scoppio, dove un ciclo di combustione non dipende da quello precedente). Tali sistemi non sono analiticamente determinabili e, di conseguenza, non sono predicibili. Inoltre come conseguenza di ciò non è possibile determinare la loro struttura dal loro comportamento.

Una decisione organizzativa, che costituisce una comunicazione, quali effetti certi e prevedibili avrà sull’organizzazione? Le sue conseguenze saranno limitate all’immediato o si propagheranno anche nel lungo termine?  E’ possibile capire come è strutturata “realmente” l’organizzazione osservando il suo comportamento complessivo?

Risposte sincere e non legate ai singoli casi daranno l’evidenza che l’approccio sistemico forse riesce a dare meglio conto della realtà organizzativa rispetto a quello mainstrem.

Ma andiamo avanti. In conseguenza di questa nuova prospettiva possiamo sostenere che le operazioni con la quale l’organizzazione si costituisce di continuo, e dunque va avanti, sono costruite da se stessa e non possono essere immesse dall’esterno. Dunque qualsiasi ambizione di ‘cambiamento’, inteso come azione di forza nel modificare le operazioni interne, è priva di fondamento e si limita ad una perturbazione dagli esiti incerti, e solo casualmente quelli voluti, oppure ad un’osservazione ex-post.

Tale caratteristica di autonomia consente al sistema organizzativo di possedere, però, una preziosa caratteristica: è in grado di elaborare informazioni sul mondo, osservarlo e farsene una sua immagine.

Tale immagine sarà l’ambiente dell’organizzazione, nel caso di un’azienda sarà ciò che genericamente viene chiamato ‘mercato’. Dunque questo è una costruzione dell’azienda e non un fatto oggettivo. Se accogliamo questa prospettiva, allora il compito di ‘colui-che-fa-un-mestiere-non-produttivo’, ovvero il manager, non è quello di comandare, governare o gestire l’organizzazione. Il suo mestiere sarà principalmente quello di fornire strumenti e sollecitazioni affinchè l’organizzazione si doti di una sua immagine del mondo, rispetto alla quale poi agirà, sempre nuova, più sofisticata e, soprattutto, non accolga quella degli altri.

E’ l’appiattimento sull’immagine del mercato degli altri che crea la competizione in quell’immagine (il mercato) non è caratteristica intrinseca dell’oggetto osservato.

E’ chiaro a questo punto che se si accoglie questo totale ribaltamento di prospettiva, non solo si capiscono meglio le dinamiche organizzative e la sua natura, ma si apre lo spazio per tipologie di intervento diverse e si da un nuovo senso e significato, diversificandone l’uso, a quelle consuete. E la responsabilità sarà di tutte le funzioni aziendali, non solo quella HR.

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