L'impossibilità sistemica dello 'stakeholder value'

14 febbraio 2022

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Uno scorpione doveva attraversare un fiume, ma non sapendo nuotare, chiese aiuto ad una rana che si trovava lì accanto. Così, con voce dolce e suadente, le disse: “per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda.” La rana gli rispose: “fossi matta! Così appena siamo in acqua mi pungi e mi uccidi!”
“E per quale motivo dovrei farlo?” incalzò lo scorpione “se ti pungessi, tu moriresti ed io, non sapendo nuotare, annegherei!” La rana stette un attimo a pensare, e convintasi della sensatezza dell’obiezione dello scorpione, lo caricò sul dorso e insieme entrarono in acqua. A metà tragitto la rana sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stata punta dallo scorpione.
Mentre entrambi stavano per morire la rana chiese all’insano ospite il perché del folle gesto. “Perché sono uno scorpione…” rispose lui “È la mia natura!”

Questa favola, dall’origine incerta anche se spesso attribuita erroneamente ad Esopo (I secolo a.C.), è una chiara metafora sulla prevalenza della “natura” delle cose, animali ma anche persone e sistemi sociali, sulla “razionalità”, spesso (o quasi sempre) solo esterna ad esse. Ciò che nella favola viene chiamata natura è infatti il modo con i quali i sistemi, certamente complessi come quelli biologici e sociali, riescono ad esistere. Laddove si trovino davanti a paradossi che mettono in contraddizione la loro natura rispetto a condizioni esterne, la prima è prevalente.

 

 

“In pubblico i Ceo parlano dell’importanza nel business dei dipendenti, delle comunità, dell’ambiente e degli altri stakeholeder. In privato, trattano affari che sanno porteranno a perdite di posti di lavoro e chiusure di uffici ma non chiedono compensazioni for queste perdite.”

Nell’estate del 2019, 181 Ceo membri della Business Roundatable, associazione dei capi azienda delle principali imprese americane, siglarono una dichiarazione per guidare l’azione delle loro corporatione a beneficio di tutti gli stakeholder- clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti – e non solo questi ultimi. Vi furono reazioni contrastanti. Alcuni salutarono il documento come l’impegno, finalmente, ad abbandonare lo shareholder value, la prevalente tutela del valore per gli azionisti a discapito degli altri. Altri invece sospettarono che fosse una studiata e utile presa di posizione per parare le crescenti critiche contro l’esclusiva ricerca del profitto.

Altri ancora, tra i quali il sottoscritto, avanzarono critiche sul metodo e merito della dichiarazione. Perchè proprio i Ceo affermavano questo se non sono i proprietari dell’azienda e inoltre sono gli  unici “dipendenti” assunti non dall’organizzazione ma esattamente dagli azionisti? C’era proprio bisogno di ribadire la necessità di tutelare clienti, dipendenti, fornitori, comunità come se un’azienda potesse prosperare sfruttandoli od operare senza di essi?

Un’evidenza di quale sia la natura delle grandi imprese al di là delle loro dichiarazioni, ci viene da un articolo del Wall Street Journal del 10 febbraio:

“In pubblico (i Ceo) parlano dell’importanza nel business dei dipendenti, delle comunità, dell’ambiente e degli altri stakeholeder. In privato, trattano affari che sanno porteranno a perdite di posti di lavoro e chiusure di uffici ma non chiedono compensazioni for queste perdite.”

L’articolo riporta una ricerca della Harvard Law School che ha studiato, a partire dall’Aprile 2020, 116 acquisizioni di aziende con valori superiori a 1 miliardo di dollari. Di queste nessuna includeva alcuna protezione legalmente vincolante o compensazione garantita per coloro che sarebbero stati lincenziati. Invece i manager delle aziende target sono stati capaci di negoziare per gli azionisti un premio medio sull’acquisizione del 34% rispetto al prezzo prima della trattativa. Inoltre questo ha influenzato pure i guadagni dei manager sulle azioni che possedevano, visto che il 98% dei deal offriva loro  ricompense di qualche tipo sull’acquisizione.

Possiamo parlare di avidità del sistema capitalistico nel suo complesso? Forse, ma l’attribuzione di caratteristiche umane a sistemi che umani non sono, oltre ad essere improprio – le aziende non hanno nè un corpo nè una mente – non aiuta a comprendere il fenomeno e a suggerire un nuovo  “vocabolario” utile ad ispirare una qualche forma di azione.

Ci troviamo di fronte alla “natura” di un sistema, quello attuale economico, che ha fornito grandi benefici alla società nel suo complesso. E’ il motivo per il quale tutti i paesi del mondo, la Cina in testa, lo vogliono adottare. Purtroppo a fronte di questi benefici vi sono anche dei costi complessivi che però il sistema economico, attraverso le sue componenti principali – le aziende – non sarà mai in grado di minimizzare a meno che non rientrino all’interno delle sue operazioni. Detto in altri termini, se il “conto” non appare a bilancio, nessun’azienda sarà in grado di pagarlo, alla faccia delle dichiarazioni autonome (?) dei Ceo.  E’ la loro natura, il loro modo di funzionare ed esistere, che consente anche di erogare i benefici ben noti. E’ compito allora degli altri stakeholder comprendere tale natura e predisporre misure che evitino l’ingenuità della rana.

Quando Milton Friedman pubblicò il suo famoso articolo sul New York Times nel 1970, additato dai più come la nascita dello shareholder value, voleva dire esattamente questo. Nella sua “scandalosa”, col metro di oggi, affermazione che “l’unica responsabilità sociale del business è accrescere i suoi profitti” pochi hanno fatto caso al seguito della sua dichiarazione: attenendosi alle regole di base della società, sia quelle contenute nelle leggi che quelle nelle consuetudini etiche.

Quali sono le leggi che impediscono, in specifiche circostanze, allo “scorpione di pungere la rana”? E le consuetudine etiche nella società che consentirebbero di condannare alcune pratiche (ex-post è sempre facile, prima nessuno guarda a ciò che fa un’azienda fintanto che paga gli stipendi e le tasse)?

Il “buon funzionamento” della società non è il risultato del comportamento di un unico attore, visto che influenza e viene influenzato dagli altri. Nè dell’azione di un ente centrale che si presume superiore  ed esterno e possa disciplinare gli altri, anche la politica è influenzata dal resto del sistema in quanto non ne è esterna. Solo guardando la società come insieme di sistemi che influenzano e sono influenzati, e tenendo da conto della loro natura, si può evitare la tragedia della rana e dello scorpione, e dei manager e degli azionisti che si arricchiscono a spese degli altri.

 

Luciano Martinoli