In "Media Stress", una diversa prospettiva

1 dicembre 2022

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Un giornalista in un suo blog in inglese pone, preceduta da una premessa, la seguente domanda:

La felicità è vivere in un ambiente migliore, avere relazioni personali di qualità e sentire di avere un posto nel mondo. Se i media costituiscono il nostro “ambiente culturale”, come contribuiscono i social al perseguimento della felicità?

La risposta proposta parte dall’analisi, piuttosto consueta, delle “esternalità negative” delle piattaforme social in termini di:

  • Potere: concentrazione nella mani delle piattaforme e dei sui algoritmi:

  • Modello: la pubblicità privilegia la cattura dell’attenzione rispetto all’informazione di qualità e genera fake news, banalità, odio.

  • Effetti collaterali: dipendenza, competizione per attenzione che genera depressione, eccetera.

Da qui, ammesso e non concesso che la “felicità”, non meglio definita, abbia qualcosa a che fare con Facebook, TikTok e company, sorge l’ovvia domanda: che fare? L’ovvia ricetta, fornita sempre nel blog, è: regolamentare, spingere per una rivoluzione culturale, auspicare una fioritura di alternative alle piattaforme esistenti per un “sano vivere online” (ammesso che si possa “vivere” on line!).

Come sempre qui, come in tanti altri tentativi di analisi del fenomeno, ci si concentra sempre e soltanto su un aspetto, forse perché è il più facile da rilevare, quello del fornitore di questo tipo di servizi e sulle storture che sono emerse. Fermo restando la fondatezza delle “esternalità negative” ormai universalmente note, sarebbe il caso però porsi, per progettare efficacemente i rimedi, un’altra domanda, altrettanto semplice, che alla maggioranza degli analisti del tema non sorge mai in mente: perché miliardi di persone usano quotidianamente, e soprattutto spontaneamente, i social media?

Non certo per fornire potere alle piattaforme, né per favorire la crescita della pubblicità su un nuovo media, men che meno per godere della dipendenza e della depressione che il loro abuso genera. Dunque, in assenza di legioni di sicari di TikTok e Google che minacciano di morte chiunque non utilizzi i loro servizi, perché le usiamo e ne abusiamo?

Evidentemente perché ci sono necessarie. Ma per fare cosa, al di là delle banalità di comunicare con gli amici, conoscenti e altre amenità?

Recentemente è stata avanzata un’interessante e approfondita ipotesi sociologica del fenomeno: l’uso dei social è una nuova modalità per costruire, e manutenere, la nostra identità. Certamente online, considerando che molte attività e transazioni del nostro quotidiano si sono trasferite dal mondo reale a quello digitale, e dunque abbiamo necessità di costruirci una identità lì. Ma c’è qualcosa di più, considerando che la vita reale ancora esiste e, per molti aspetti, non è stata e non può essere “digitalizzata” (dubito che saremo mai in grado di consumare un pasto o godere di una vacanza direttamente dallo schermo di un PC o di uno smartphone!).

I social media sono l’unico modo che ci consente di “osservare come siamo osservati”.

 

…perché miliardi di persone usano quotidianamente, e soprattutto spontaneamente, i social media?

Attraverso il meccanismo dei “profili”, proiettiamo sulla rete una proposta identitaria sottoponendola al giudizio del mondo digitale. Questo reagirà restituendoci un giudizio su di esso, anche nel caso ci ignorasse, in termini di like, followers, commenti e altro consentendoci di rinforzare o modificare il nostro profilo. Solo i social media consentono ad oggi di implementare questo meccanismo al quale teniamo molto e che, a ben vedere, è anteriore alla tecnologia. Anzi potremmo dire, visto anche lo strepitoso successo, che i social questa modalità non se la sono inventata ma semplicemente le abbiano dato sfogo e forma perché pre-esistente.

Nessuno può negare i problemi generati dai social media, che sono sotto gli occhi di tutti. Riguardo quelli relativi alle singole persone però non sono molti diversi dalle patologie generate da altre modalità identitarie, che ci sono ben note, e che affondano le loro radici nella sovra-identificazione e nell’eccessivo attaccamento ad esse.

Che dire infatti dell’estenuante e problematica ricerca del sé “autentico” che affligge tanti adolescenti, ma non solo, spingendoli all’incessante, e stressante, adozione di simboli e comportamenti che gli consentano di esprimerlo (il “sé unico” è sempre paradossale perché deve assomigliare a qualcosa per essere riconosciuto)?

Per non parlare dei problemi generati dall’eccessiva identificazione in ruoli assegnati alla nascita, che comportano la rigida accettazione di norme religiose ed etniche e sfociano in eccessi, che erano presenti anche nelle società occidentali. Tale modalità identitaria, nota come Sincerità, ha portato all’uccisione di una ragazza pachistana da parte dei parenti per aver rifiutato il rito tribale del matrimonio combinato (presente anche da noi qualche secolo fa), rifiuto che metteva a repentaglio la “sincera” identità dell’intera famiglia.

Purtroppo è nella natura paradossale dell’identità generare tali problemi e il loro unico rimedio è nel prenderne distanza, nel non essere mai troppo seri nel porsi la domanda: chi sono io?

Gli altri problemi vanno sì affrontati, ma partendo dall’approfondita analisi delle motivazioni d’uso, che sono le reali cause prime dei social media, e non dai loro effetti sui gestori, sulla pubblicità o sull’informazione, che ne sono le loro conseguenze. Non farlo ci farebbe correre il rischio di curare i sintomi e non la malattia.

Luciano Martinoli