I comportamenti in azienda sono determinati dalle persone, dall’organizzazione o da entrambi?
In azienda si vorrebbe che tutti i comportamenti delle persone fossero secondo le norme al fine di evitare i problemi prevedibili o consentire migliori prestazioni collettive. Per rinforzare l’adozione delle norme di comportamento vi è poi l’associazione ad essa delle sanzioni, nella speranza che costituiscano un deterrente definitivo e costante contro la loro violazione.
Purtroppo l’esperienza quotidiana dimostra che non è così. La pena di morte, laddove esiste ancora, non ha scongiurato i delitti gravi. La gente continua a fumare (a bere alcolici, a sostenere stili alimentari dannosi, ad assumere droghe…) pur avendo coscienza del danno che provoca alla propria salute. Guidando un’automobile mille volte trasgrediamo volontariamente il codice della strada pur conoscendo i pericoli in termini di conseguenze del nostro comportamento e sanzioni che potrebbero colpirci. Da queste e mille altri riscontri è facile fare una semplice considerazione: noi non siamo in grado di controllare costantemente e totalmente i nostri comportamenti.
Vi è poi una dimensione sociale che prescinde dalla nostra interiorità. In azienda siamo parte di organizzazioni, e relativi scambi relazionali sia normati ufficialmente che dalle prassi specifiche di quel momento e luogo, le cui azioni collettive non hanno nulla a che fare con la volontà e più in generale la sfera psichica nostra e degli altri. Effettuare una certa operazione in un laminatoio a caldo o ricevere una email di reclamo da un cliente, è operazione sociale dell’organizzazione non della nostra o altrui mente (sentimenti, convinzioni, valori, eccetera) anche se ne è influenzata o la può influenzare. Non ho bisogno di sapere lo stato d’animo del mio collega per immettere insieme a lui un semilavorato in un forno a 1.200 gradi, né necessito di conoscere l’orientamento politico di chi ha inoltrato il reclamo per poter rispondere in modo soddisfacente.
Un valido supporto teorico, con immediate conseguenze pratiche nel suggerire modalità di intervento sul tema dei comportamenti, viene dall’approccio sistemico secondo il quale ogni “sistema” è tale rispetto ad un suo “ambiente” dal quale si differenzia in termini di operazioni, altrimenti sarebbe ancora ambiente, ma ne è immerso per scambi energetici, informativi, eccetera.
Accogliendo tale ottica la “persona” è una costruzione sociale fatta dal sistema fisico, il nostro corpo, e quello psichico, la nostra mente, ognuno ambiente o sistema dell’altro a seconda di chi vogliamo prendere in considerazione. La mente ha le sue operazioni, ad esempio prova gioia, come il corpo ha a sua volta le sue, ad esempio respira. Questi sistemi sono chiusi da un punto di vista delle operazioni ovvero la mente non può respirare o i polmoni essere allegri. Ciononostante esistono scambi tra questi due sistemi: se abbiamo paura o siamo in ansia, operazione mentale, la respirazione accelera, operazione fisica. Al correlazione tra queste operazioni però non è strettamente causale ma frutto di “scambi” che sollecitano la struttura dei sistemi. Respirare con maggiore frequenza non genera necessariamente ansia e essere in ansia non porta sempre e comunque ad un’accelerazione della respirazione. Analogamente la dimensione sociale, nel caso specifico quella organizzativa, è diversa da quella personale, mentale e fisica, pur essendone influenzata e pur potendola influenzare.
In questa nuova prospettiva, che da meglio conto della reale complessità delle sfere fisiche, mentali e sociali, emergono alcune evidenze e prospettive di intervento. La prima è che la formazione, intendendo la somministrazione in aula o altro luogo diverso dal consueto ambiente organizzativo di lavoro di contenuti riguardanti comportamenti voluti, ha pochissimo o nessun effetto certo sui comportamenti a cui si vorrebbe dare “forma”. Il motivo è semplice: l’eventuale induzione di nuovi comportamenti avverrebbe nel luogo di formazione che è sempre totalmente diverso da quello del lavoro. Esso non è trasportabile in quanto dipende dal contesto ed è fortemente connesso ad esso.
Un’altra conseguenza è cambiare target di intervento: non le persone ma la dimensione sociale dell’organizzazione. Nessuno dovrebbe avere l’intenzione di intervenire sulla mente, peggio ancora sul corpo, di chicchessia per “cambiarla” al fine di modificarne i comportamenti. Il XX secolo ha dato ampie dimostrazioni sulle conseguenze di tali tentativi di alcuni sistemi politici nel voler raggiungere questi obiettivi sui propri cittadini, perché nel XXI secolo dovrebbe essere consentito alle aziende sui propri dipendenti? Le persone non sono “risorse aziendali” lo è il sistema organizzativo che, rispetto a loro, è ambiente. Ecco allora che l’attenzione e l’ambito d’intervento deve essere l’organizzazione, la sua struttura, la sua parte non formale che ne è la costituente unica, la sua quotidiana e inarrestabile, seppur lenta evoluzione. Questo dovrebbe essere l’ambito di intervento del quotidiano lavoro del manager inteso come osservatore del sistema perché non ne fa parte, fa un altro lavoro, e proprio grazie a questo è in grado di capirne l’evoluzione e la sua congruenza con l’ambiente (altri sistemi sociali: il resto dell’organizzazione, i clienti, i fornitori, ecc.).
Accogliendo questa prospettiva è evidente che vi sia la necessità di una classe di metodi, strumenti e approcci totalmente nuova che non sostituisca totalmente quelle esistenti ma diano loro meglio conto dei limiti e della reale efficacia. Lo richiedono le esigenze aziendali di sicurezza sul lavoro, soddisfazione dei clienti, qualità dei prodotti, engagement, il benessere complessivo e tutte le etichette fiorite in questi anni sui temi organizzativi.
Luciano Martinoli
P.S. Il 17 gennaio a Milano parleremo di questi temi nel seminario “Il manager come ambiente”