Contro la dittatura dei dati

28 maggio 2021

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Un articolo di qualche giorno fa del Wall Street Journal, invitava le aziende a non rinunciare ai “Focus Group”, ovvero a quelle ricerche qualitative che non si basano su grandi mole di dati ma su pochi e qualificati contatti con le persone.

Ad esempio la Lego, l’azienda danese famosa in tutto il mondo per i suoi mattoncini incastrabili, agli inizi del 2000 era in profonda crisi per colpa dell’ascesa e del successo dei videogiochi. Affidandosi ai data analytics i vertici conclusero che la generazione digitale chiedeva gratificazioni istantanee e così decisero di costruire kit con componenti più grandi in modo che  potessero essere completati più velocemente.  Fu un grave errore; le vendite precipitarono ulteriormente.

Mentre l’azienda si stava avviando velocemente verso il fallimento, il management decise di ridirezionare l’attenzione ascoltando i potenziali clienti, invece che trattarli come data point. Fu così che un ragazzo tedesco di 11 anni riferì ad un team di ricercatori Lego che le suole distrutte delle sue scarpe erano la dimostrazione tangibile della sua abilità sullo skateboard.  “Sono il mio trofeo” disse il ragazzo.

Fu l’affermazione che fece accendere la lampadina nella testa della Lego e cambiò le sue sorti. Se un undicenne consuma scarpe per perfezionare la sua tecnica sullo skateboard, forse questa generazione non era dopo tutto così dipendente dalla gratificazione istantanea. Questa rivelazione e altre ottenute con non molte interviste faccia a faccia, portò la Lego a ritornare ai mattoni più piccoli e accrescere la complessità dei  suoi kit. Oggi l’azienda è il più grande produttore di giochi al mondo.

In un epoca dilagante di big data, e di intelligenza artificiale che li elabora, si è portati a pensare che grazie ad essi si possano conoscere i clienti, i dipendenti, e tante altre persone meglio di loro stessi. I numeri non mentono ma possono essere fuorvianti in quanto un dato è progettato ex ante per uno scopo e non è detto possa servirne un altro.

Ad esempio, un importante social media pensava di aver sviluppato un efficacissimo layout di pagina della loro app perchè gli utenti spendevano molto tempo su di essa facendola scorrere e battendo tasti. Quando reclutarono una società di consulenza di ricerca qualitative, per averne conferma, scoprirono che il turbinio di attività era dovuto alla difficoltà di uscire da quella pagina.

Inoltre le motivazioni, le convinzioni e le passioni delle persone non possono essere racchiuse nell’angusto ambito numerico.

Un esperto di marketing e comportamento consumatori, nell’articolo dichiara:

Mentre i dati quantitativi possono fornire informazioni rilevanti, l’abbondanza di dati disponibile oggi porta alla cosiddetta  ‘supponenza da dato’ che assume che i numeri sono la storia mentre invece sono solo una parte di essa. I big data possono aiutare a riconoscere che qualcosa è accaduto, ma non possono raccontarci il più fondamentale perché.”

Oltre a poter essere facilmente interpretati erroneamente, i big data possono essere anche semplicemente sbagliati. Una ricerca pubblicata nel 2019 sulla rivista Marketing Science Frontiers trovò che i profili dei consumatori digitali basati sulle abitudini di navigazione, che i fornitori di dati vendono per indirizzare meglio la pubblicità, sono inaffidabili e altamente inaccurati e pertanto costituiscono una stima mediocre dei clienti reali. Questo ha una spiegazione tanto ovvia quanto ignorata:

Ciò che la gente dice online non è una buona misura di quanto fa offline”.

Ma perché allora ci si affida sempre di più ai big data? Perché è facile ed economico. L’acquisto e l’elaborazione dei dati è più semplice della ricerca sul campo e degli incontri a tu per tu con clienti e dipendenti (o elettori, studenti, eccetera). Inoltre vi è la necessità di un atteggiamento paradossale per condure tali ricerche, impossibile con l’approccio big data. Infatti da un lato vi è la necessità di definire ex ante un metodo e un modello di cosa si cerca che indirizzi le attività sul campo. Allo stesso tempo però si deve essere pronti ad abbandonarlo laddove ci si trovi in presenza di elementi fortemente innovativi che, proprio per questo, non potevano essere previsti ma sono la fonte della vera ispirazione e della “realtà profonda che non si stava cercando”. Come è accaduto nel caso Lego.

E’ facile capire che è esattamente il contrario di come invece l’approccio big data, basato sui computer, operi. Innanzitutto si parte dalla disponibilità preesistente dei dati, più ne sono e meglio è. Questi possono essere raccolti ad hoc o presi laddove già disponibili, quindi progettati per altri scopi, portandosi dietro un primo pregiudizio (bias). Successivamente le elaborazioni su di esse sono progettate prima e non lasciano spazio a “sorprese” per vincoli strutturali del paradigma computazionale. Solo i risultati delle elaborazioni, sottoposti alle analisi dei data scientist, porteranno poi a delle risultanze che risulteranno pesantemente condizionate.

Da questo è facile capire che i big data ci dicono se esiste ciò che cerchiamo. Le vere innovazioni però, le informazioni illuminanti che ci indicano strade totalmente nuove, vengono quando ci troviamo davanti a ciò che non cercavamo; in genere significati, emozioni, convinzioni. Una macchina, le attuali macchine, non possono effettuare tali operazioni, esse sono istruite per trovare fatti.

Un organizzazione allora dovrebbe aver ben presente quando usare big data e quando no. Il dato, e il numero che meglio lo rappresenta, è sempre una nostra costruzione. A volte dobbiamo farci sorprendere dalle costruzioni della realtà che non conosciamo e che, proprio per questo, ci dicono molto di più.

Luciano Martinoli