Chi stabilisce il “merito”? il caso dei Ceo americani.

27 aprile 2021

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Merito: Indica il diritto che con le proprie opere o le proprie qualità si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa (materiale, morale o anche soprannaturale), in relazione e in proporzione al bene compiuto e sempre sulla base di un principio etico universale che, mentre sostiene la libertà del volere, afferma la doverosità dell’agire morale.

E’ una delle tante definizioni che si possono trovare in rete. E’ una definizione che lascia pericolosamente sospesa la paternità del giudizio sulla qualità delle “opere”, meritevoli o meno. Detto in altri termini, si sottintende, qui come altrove, che quel diritto scaturisca quasi automaticamente perché sono evidenti a tutti le qualità e la bontà delle opere. Ma è proprio così?

Prendiamo ad esempio il recente caso riportato dal New York Times sugli stipendi percepiti l’anno scorso dai Ceo di alcune grandi aziende americane. Per definizione i capi di azienda sono scelti dagli azionisti, proprietari delle aziende, tra i candidati più competenti e meritevoli per occupare quelle posizioni allo scopo di garantire la produzione di ricchezza. L’anno scorso, riporta il giornale, la catena alberghiera Hilton ha perso 720 milioni di dollari, At&t, colosso delle telecomunicazioni, 5,4 miliardi, Boeing 12 miliardi, Disney 2,8 miliardi. I loro Ceo però hanno guadagnato in tutto rispettivamente 20,1 – 21 – 21,1 e 21 milioni di dollari tra stipendi e bonus. Hanno meritato davvero i loro stipendi e i loro premi? Se gli sono stati erogati da chi poteva decidere tra gli azionisti, evidentemente sì ma per tutti gli altri (dipendenti, clienti, fornitori, pubblica opinione)?

Nel 1989 in USA il rapporto tra lo stipendio di un Ceo di una grande azienda e il lavoratore medio era di 61 a 1. Oggi è di 320 volte superiore. Nel frattempo tali aziende hanno molti meno dipendenti, pagano meno tasse e fanno meno investimenti preferendo acquistare azioni proprie in borsa. Da che punto di vista questi signori meritano tali guadagni?

In un suo libro, The Meritocracy Trap  il  professor Daniel Markovits afferma che il cardine della meritocrazia negli USA, ovvero l’opinione di base sul merito, sia la formazione universitaria elitaria. L’accesso alle prestigiose università, riservata ai più ricchi in virtù dei costi, consente di consegnare un primo patrimonio di merito (non sempre “meritato” visti i numerosi scandali per i fenomeni di corruzione legati  alle ammissioni) a pochi privilegiati i quali perpetuano la protezione di privilegi fino a formare una vera e propria casta. 

Non è mia intenzione qui esprimere giudizi morali o di altro tipo. Desidero sottolineare, a partire da questi esempi, che il concetto di merito è spesso presentato come caratteristica  oggettiva. Invece è un’opinione di parte, non necessariamente condivisa da altri o supportata dai fatti.

Sarebbe allora opportuno evitare di parlare di un vago merito, che evoca la formazione di una generica casta i cui requisiti di accesso sono definiti (guarda caso) da chi invoca tale merito, e soffermarsi  alla richiesta di pari opportunità per tutti e in ogni ambito. Dando a tutti l’opportunità di esprimersi, si consentirà agli altri di giudicare la prestazione conseguente, verificarne la qualità, o meno, e premiarla di conseguenza in virtù delle loro possibilità e utilità. Tutti gli altri, se coinvolti o interessati, invocassero la verifica e i criteri di attribuzione dello specifico merito, senza generalizzare ciò che non può essere universalmente riconosciuto e obiettivamente giudicato.

Fare diversamente fa emergere il sospetto di voler perseguire interessi di parte, da promuovere o proteggere.

Luciano Martinoli