A cosa serve la "Gerarchia"?

di

Luciano Martinoli
[email protected]

7 novembre 2019

In genere la risposta intuitiva alla domanda mette in relazione la gerarchia con “l’ordine” e alle conseguenze della sua mancanza: tutti sarebbero autorizzati a prendere decisioni, l’organizzazione nel suo complesso non avrebbe obiettivi da raggiungere, emergerebbero infinite discussioni (sindrome da riunione di condominio) alle quali nessuno sarebbe in grado di porre rimedio, non si saprebbe a chi sottoporre problemi irrisolti; insomma il caos.
Analizziamo allora alcune delle esigenze sistemiche alle quali la gerarchia fa fronte.

La prima è sicuramente la strutturazione. La gerarchia è uno strumento, se volete una “tecnologia”, per dare forma ad un’organizzazione, sia all’esterno che al proprio interno. All’esterno permette di sapere quali sono i punti di contatto per affrontare determinati temi e con quali responsabilità. All’interno consente ad ognuno di conoscere il proprio posto nell’ordine organizzativo e conseguentemente le proprie responsabilità e mezzi.
Da qui discende un altro aspetto correlato a questo: la gerarchia è la tecnologia organizzativa per distribuire mezzi e fini. Grazie ad essa infatti ognuno avrà assegnato i compiti e le risorse con le quali svolgerlo, avendo chiaro a chi rivolgersi per problematiche che esulano da quelle assegnate e dalle quali dipende il proprio lavoro. Viceversa ognuno saprà da chi dipende il suo lavoro e cosa e come aspettarsi da costoro.

Spesso la gerarchia viene associata al potere: più si è in alto e più potere si ha. Se questo è vero per l’ambito decisionale di cui si può disporre, non lo è affatto per gli scopi che si vogliono raggiungere. Un amministratore delegato può decidere come battere, secondo lui, la concorrenza ma questo non si tradurrà automaticamente nella sconfitta degli avversari. Un generale può decidere quali movimenti di truppe e mezzi aerei e navali mettere in atto, ma non può con questi decidere di aver vinto la guerra. Di fatto allora la gerarchia è una tecnica per distribuire il potere decisionale, più che assegnare quello di far accadere le cose, all’interno dell’organizzazione. Se infatti è vero che i vertici possono “sorvegliare”, i sottoposti hanno il potere di “subvegliare” i loro capi. Nessun capo sarebbe in grado di svolgere un compito da solo, se così fosse non ci sarebbe bisogno di un’organizzazione. Egli, o ella, allora deve suddividere quel compito in sotto compiti da affidare ai suoi collaboratori che faranno lo stesso con i loro e così via. I livelli sottostanti hanno allora il potere di influenzare, in buona o cattiva fede, il raggiungimento del compito superiore facendo il loro in un modo o in un altro, fornendo alcune informazioni e non fornendone altre, e così via. Ecco allora che il “potere del capo” appare in realtà molto limitato: ne ha una fettina condivisa, con pesi diversi, con tutti quelli che riportano a lui. Dunque, come si è già detto ma è bene ripeterlo, non “assegnazione” del potere ma sua “distribuzione”.

Certamente una delle funzioni gerarchiche è dirimere incomprensioni e contrasti potenzialmente infiniti che rischiano di bloccare il funzionamento dell’organizzazione. Le divergenze tra pari possono essere risolte d’imperio dal capo di entrambi o dai livelli superiori, con le ovvie conseguenze (al peggio accontentare una parte a danno dell’altra). L’accettazione della decisione dei vertici porta ad un altro aspetto chiave della gerarchia: il rispetto delle condizioni di appartenenza. La prima persona che viene presentata ad un nuovo assunto è il suo capo. Seguire le sue direttive è una delle più forti condizioni di appartenenza ad un’organizzazione. Se qualcuno dicesse al suo capo: da oggi non seguirò più ciò che mi dici, equivarrebbe a dire che non vuol essere più parte di quella organizzazione. Dunque la gerarchia fornisce una tecnica per il controllo di tali condizioni di appartenenza all’organizzazione stessa, tra le quali essenziali sono quelle “formali” della cui osservanza il capo è responsabile.

La lista potrebbe continuare e spero di aver dato delle risposte, esigue e parziali, da un punto di vista sistemico e al di là dei luoghi comuni.
Già solo a partire da queste però si apre un più ampio dibattito, che si sta già svolgendo da tempo nel mondo delle organizzazioni, e che spero si arricchisca commentando questo post: vi sono assetti diversi da quello gerarchico che superino i suoi limiti (dei quali non si è parlato) e garantiscano il soddisfacimento delle stesse esigenze sistemiche organizzative?

Una risposta

  1. Secondo me il problema delle organizzazioni fortemente gerarchiche è in queste parole “I livelli sottostanti hanno allora il potere di influenzare, in buona o cattiva fede, il raggiungimento del compito superiore facendo il loro in un modo o in un altro, fornendo alcune informazioni e non fornendone altre, e così via”.
    In altre parole i livelli sottostanti possono a tutti gli effetti indirizzare le attività più dei capi se questi non sono in grado di controllare i collaboratori. Non sempre, infatti, i capi sono in grado di controllare la buona o cattiva fede dei collaboratori perché o mancano di capacità cognitive o non ci mettono molta attenzione o per tanti altri motivi. Alcune volte, invece, i capi sono in grado di verificare tutti i processi al di sotto perché li hanno frequentati e allora – che ci sia mala o buona fede – è difficile che l’iniziativa sia etorodiretta dai cosiddetti “sottoposti”. Quindi la gerarchia , a mio avviso, non è nè buona né cattiva. Dipende dagli interpreti e da come viene interpretata e vissuta apicalmente e non.