“Responsabilità sociale”: che mettano la faccia le persone

4 maggio 2021

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Nel suo famoso articolo del 1970 Milton Friedman contestava che il business potesse avere “responsabilità sociale”, o di qualsiasi altro tipo, in quanto soltanto le persone fisiche possono essere dichiarate responsabili per qualcosa. Dire che un’azienda è responsabile e come voler affermare che un leone affamato che sbrani una gazzella è responsabile della sua morte. Oppure che il Coronavirus è responsabile dei disastri sociale e sanitari planetari di questo ultimo anno e mezzo. Qui è facile riconoscere un uso improprio della parola, al suo posto è più appropriato parlare di  “causa” . Infatti se definiamo responsabilità come la “possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione”  né il leone né il virus hanno tali possibilità, sono stati semplicemente le cause. Può l’azienda, intesa come sistema sociale, avere responsabilità?

Evidentemente no in quanto l’azienda è una persona giuridica e, come tale, ha una sua consistenza solo nella sfera sociale in ambito giuridico, economico, e altri ancora. Ad esempio proprio la giurisprudenza riconosce da un lato lo stato di “persona” dell’azienda (esiste, può possedere beni, effettuare transazioni giuridicamente rilevanti come una persona in carne ed ossa). Poi però se deve stabilire la sua responsabilità per comportamenti od omissioni gravi (codice penale), ricerca e sanziona le persone fisiche. E per poterlo fare stabilisce con precisione chi all’interno dell’azienda è responsabile per cosa in modo da poterlo facilmente identificare nel caso di eventi sanzionabili.

Friedman nel suo articolo procedeva allora nell’esaminare quali dovevano essere le responsabilità sociali di coloro a capo di un’azienda, unici a poter essere investiti di questa incombenza. Ebbene rilevava che essendo messi lì dai proprietari, che avevano investito denaro nell’azienda, la loro unica responsabilità era quella di far sì che l’azienda producesse profitto. Questa tesi non solo oggi risuona scandalosa, ma fu ritenuta di fornire base teorica alla cosiddetta teoria dello shareholder value, imperante da allora e solo recentemente iniziata ad essere messa in discussione.  L’economista motivava la sua posizione con corrette, a mio avviso, valutazioni economiche e politiche sulle conseguenze di comportamenti socialmente responsabili da parte del capo azienda (per un cenno si possono leggere alcune delle sue considerazioni qui).

La sua forte affermazione ha attirato, e continua a farlo, le ire e le polemiche di chi dimenticava la precisazione iniziale, ovvero che un sistema sociale non può avere responsabilità in quanto non è persona fisica. Inoltre ha offuscato la vista su ciò che veniva specificato di seguito a proposito della responsabilità sociale dell’unica persona fisica a cui addossare qualche responsabilità, il capo azienda: fare sì profitti, ma allo stesso tempo attenendosi alle regole di base della società, sia quelle contenute nelle leggi che quelle nelle consuetudini etiche.

Se accettiamo, come mi pare siano accettabili, i punti emersi finora, i veri autori di una responsabilità sociale sono i proprietari delle aziende. Questi dovrebbero imporre ferree ed inderogabili regole agli amministratori sul rispetto di leggi, ovviamente, e consuetudine etiche da rispettare (nel caso esplicitandole chiaramente onde evitare malintesi).

Ma chi sono i proprietari delle aziende e dei colossi multinazionali? Sono persone fisiche, e dunque potenzialmente responsabili, o altre aziende? Una volta vi erano i “padroni”, molti dei quali costruivano villaggi, creavano condizioni favorevoli per i dipendenti, vivevano nelle comunità in cui operavano e dunque sentivano la responsabilità sulla loro pelle. Oggi non è più così. La proprietà dei soggetti aziendali di cui si chiede, impropriamente, responsabilità è frammentata tra una miriade di soggetti, molti dei quali sono altre aziende. Tra queste ultime vi sono alcuni, purtroppo pochi, casi virtuosi. Ad esempio Larry Fink, Ceo del gigante finanziario Blackrock, nella sua annuale lettera agli amministratori delle aziende in cui investe, ha mandato loro un chiaro messaggio sull’importanza del rispetto dei fattori ambientali e sociali per raggiungere gli obiettivi di business, arrivandoli a minacciare di sfiducia nel caso i loro piani non fossero credibili. Il fondo sovrano norvegese, Norges Bank Investment Management, ha recentemente deciso di passare ad una politica di investimenti diretti in aziende. La scelta è motivata anche dal poter essere più propositivi ed effettuare un maggior controllo sul rispetto di norme ambientali e sociali delle società partecipate, principi guida del fondo fin dalla sua costituzione nel 1990.

Nel caso invece in cui sia possibile risalire ai proprietari fisici, essi sono così numerosi (basti pensare ai possessori di azioni o di quote di un fondo azionario) anonimi e distanti dall’operato della loro proprietà, da risultare impossibile per loro fornire indicazioni agli amministratori oltre quello principale per cui hanno acquisito tale proprietà: fare profitti.

E non basta al momento neppure la forte pressione di adempiere alle numerose richieste di conformità a standard predisposti allo scopo, considerando la natura articolata e mutevole della materia. Molto spesso tali certificazioni si rivelano essere una semplice attività di green washing: un modo per aggirare, apparentemente soddisfacendole, tali richieste per poi continuare a fare come sempre. Laddove è possibile però, sono molto più significative le dichiarazioni di manager e investitori singoli su alcuni argomenti “sociali”.

E’ il caso di Warren Buffet che in uno degli ultimi incontri con gli azionisti della sua conglomerata Berkshire Hathaway, dichiarò che in ossequio alla politica di lasciare le aziende possedute largamente indipendenti, sui temi del cambiamento climatico e delle diversità di genere non ritenesse “di imporre le mie opinioni politiche sulle attività del nostro business”. Buffet sembra annoverarsi tra coloro che ritengono, come affermava Friedman, che le aziende devono fare profitti dimenticando però l’obbligo di attenersi alle consuetudini etiche, che scambia come ‘opinioni politiche personali’. E’ facile prevedere, a fronte di queste dichiarazioni, in che direzione si sentino in dovere di operare gli amministratori delle aziende controllate.

Caso analogo quello dei fondatori di Basecamp, piccola ma influente azienda software nel campo di prodotti di comunicazione e gestione prodotti, quando vietarono discussioni politiche al personale sul posto di lavoro. Appare contraddittorio dopo che per anni si è richiesto alle persone di “portare se stessi sul luogo di lavoro” che adesso si chieda di farlo un po’ meno. Le conseguenze non si sono fatte attendere: almeno 20 dipendenti, un terzo della forza lavoro, ha rassegnato le dimissioni. Altri big tecnologici, ad esempio Google e Facebook, hanno  consentito dibattiti di questo tipo anche mettendo a disposizione infrastrutture interne. Poi anche loro hanno invitato a limitarne l’uso ed evitare discussioni politiche. Le tensioni all’interno sono note da tempo, come dimostra la richiesta di alcuni dipendenti Google di creare un sindacato.

Nulla di tutto questo può essere misurato o rappresentato così come pure è sempre più difficile farlo per le altre dimensioni “sociali” in cui si richiede responsabilità.

La morale di tutto questo è duplice. Per le aziende è che devono convincersi che ormai le “consuetudini etiche” alle quali attenersi, e all’interno delle quali fare profitti, sono più numerose e pressanti. Detto in altri termini il business è sempre di più multidimensionale; focalizzarsi solo sul far quadrare i conti ottemperando alle leggi e ignorando il resto può danneggiare alla (non tanto) lunga il business stesso.

Per gli stakeholder, e chi vuole dar loro supporto, i rapporti ESG, le certificazioni e similia sono spesso solo utili strumenti per le aziende di distogliere l’attenzione sul reale stato del loro operato. Meglio chiedere reale responsabilità ad esseri umani in carne ed ossa: chiedere agli amministratori e agli azionisti, una volta identificati, di “mettere pubblicamente la faccia” ed essere disposti periodicamente a dar conto delle proprie azioni. Se le aziende, come sistemi, non possono essere responsabili, lo sono certamente chi dietro di loro decide il loro agire. Consentire di nascondersi dietro burocratiche documentazioni o anonime certificazioni non servirà certo a realizzare quel profondo cambiamento sociale al quale tutti aspiriamo.  Un ritorno all’osservazione diretta di questi fenomeni e dei loro autori, invece di quella attraverso terzi (certificatori, consulenti, ecc.), è in questo caso auspicabile. In difetto, forse corriamo il rischio di veder cancellare dal nostro vocabolario la parola “responsabilità” e tutto quello che eticamente rappresenta.

Luciano Martinoli