I Social Media non sono un canale di comunicazione

7 settembre 2022

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É apparso qualche giorno fa sul sito dell’AGI Agenzia Italia una articolo dal titolo Quanto conta per le aziende che cosa i dipendenti fanno sui social.

A partire dalle vicende di alcuni candidati di partiti, ritiratisi dopo la pubblicazione sui loro profili di post in contrasto col programma politico del proprio schieramento, l’autore indaga, intervistando alcuni direttori del personale, su come e se alcune grandi aziende utilizzano i social per valutare le assunzioni dei candidati.

A mio avviso l’articolo soffre di due importanti pregiudizi, ancora molto diffusi sulla comprensione e sull’uso dei social e sul tema dell’identità. Il primo è che esista una intrinseca definitiva “autenticità” identitaria, un sé profondo da scoprire per conoscere meglio chiunque. Il secondo è che le piattaforme social siano un mezzo di “comunicazione” per mostrare questo autentico “sé” e, dunque, basti osservarli per conoscere davvero le persone (addirittura c’è qualcuno che sostiene che i social media ci conoscano meglio di quanto noi conosciamo noi stessi!).

Come sostiene il filosofo Hans Georg Moeller nel suo ultimo libro sull’argomento (Il Tuo Profilo e Te L’identità dopo l’Autenticità):

Nell’autenticità, ci si aspetta che il proprio volto esprima accuratamente il proprio sé. Una maschera che non è una maschera, il vero sé deve essere trovato o creato. Che questo possa essere un compito impossibile è indicato dall’uso sospettosamente frequente di frasi tautologiche come “veramente autentico” nei manuali fai-da-te sull’autenticità, nelle pubblicità, nei dibattiti in rete. Come possiamo fidarci dell’autenticità? Presentiamo davvero il nostro vero volto agli altri e gli altri fanno lo stesso? Chi può dirlo con certezza? Che aspetto ha un volto del tutto originale? E se assomiglia a qualcosa, è del tutto originale? Quale autentica acconciatura rappresenta davvero il tuo vero io? È difficile dare risposte a tali domande.

Dunque l’autenticità è uno dei modi, forse anche grossolano e certamente non risolutivo e definitivo, di costruire l’identità. È stata supportata da un vocabolario, da una retorica, da un’etica, da una politica e un’economia dell’individualismo che ha fatto credere alle persone che l’identità sboccia dall’originalità personale, dalla creatività e dall’autonomia. La tutela della presunta inalienabile dignità dell’autentico individuo è diventata quasi un primo comandamento. Essendo legata alla formazione dell’identità, l’autenticità è ampiamente interiorizzata. Il vero valore dell’identità, si presume, può venire solo dall’essere autentici.

L’autenticità, però, ha molti aspetti paradossali e una importante caratteristica: si affida molto all’interazione personale tra i singoli. Individui autentici confermano reciprocamente il valore dell’identità e, per farlo, devono conoscersi ed essere allo stesso tempo nello stesso posto. Nel mondo virtuale che viviamo oggi questa interazione “dal vivo” è diventata sempre meno importante. Il contatto personale tra il venditore e l’acquirente è spesso obsoleto o irrilevante quando si realizzano scambi economici (Amazon, eBay, e altri). Lo stesso dicasi, con sempre maggior frequenza, per lo scambio con le Pubbliche Amministrazioni e in altri ambiti sociali.

Allo stesso tempo, proprio perché le nostre interazioni col mondo stanno perdendo la fisicità imposta da qui e adesso, vi è la necessità di un’altra modalità di costruzione dell’identità, che non necessiti di contatti personali e sia sufficientemente flessibile per poter interagire con gli svariati, e specifici, mondi virtuali. C’è anche un lato positivo in tutto questo: la libertà di potersi presentare in modi diversi secondo le interazioni (virtuali) che desideriamo realizzare. Ovviamente questa nostra proposta identitaria, attraverso la costruzione e costante manutenzione di “profili”, per essere valida deve essere vagliata, ed accettata dagli altri e, nel caso, modificata.

Ed è qui che intervengono i social media, nel dare sfogo e spazio alla necessità di pubblicare e consentire l’osservazione agli altri dei nostri profili in diversi contesti virtuali, consentirne la loro manutenzione se necessario e, fattore importantissimo, mantenerli costantemente aggiornati. Poichè i sistemi sociali sono molteplici e hanno loro logiche di funzionamento interno, sono disponibili una pluralità di piattaforme specifiche (se qualcuno volesse comunicare con gli utenti di Trip Advisor dovrebbe prima aprire un ristorante).

Dunque non semplici canali di comunicazione nei quali trasmettere, e ricevere, l’autentico sé (e men che meno generiche “informazioni”), ma luoghi di proposta, validazione e continuo supporto e modifica dove presentare tali profili. Ed è dunque il profilo, in questi contesti, che costituisce la nostra identità (un mio amico alla notizia che non intendevo usare più Whatsapp mi ha etichettato come “eremita” intendendo così sostenere, correttamente nel contesto virtuale, che chi non è sui social non esiste!).

In ambito politico, dove anche il privato è pubblico, non solo i post ma anche i comportamenti resi pubblici via social, per contrastare i profili, sono valutati politicamente. Basti pensare al recente caso di Sanna Marin, il premier finlandese, per la sua partecipazione ad un festa o a Boris Johnson e il festino in pieno lockdown: nessuna polemica ci sarebbe stata se fossero stati normali cittadini, social media o meno. In azienda invece l’interesse è per le capacità di prestazione professionale in senso lato, tecnico ma anche manageriale e relazionale, che è rilevante soprattutto perché la presenza fisica, anche se saltuaria in tempi di remote working, è alla base della relazione di lavoro. Indagare su come i candidati o i dipendenti si profilano in rete per le loro interazioni virtuali non solo è irrilevante allo scopo ma verrebbe percepita, giustamente, come una sgradevole e intollerabile invasione della sfera privata.

Bene dunque le decisioni politiche sul ritiro delle candidature. Ma hanno anche correttamente inquadrato il tema i vari responsabili del personale intervistati, specificando correttamente i termini della questione e gli opportuni distinguo sia in termini di esigenze aziendali che di strumenti per soddisfarli, anche se una più approfondita comprensione sul tema, con presupposti però ben diversi da quelli intesi nell’articolo, potrebbe aprire nuovi spazi di intervento nell’ampia tematica della “gestione” del personale.

E’ ora di dotarsi di strumenti concettuali più sofisticati e moderni per comprendere e utilizzare correttamente queste tecnologie: non sono buone per tutto, chi non le usa non è un nostalgico conservatore e, soprattutto, appare tale chi le vuole usare e non ne conosce gli scopi e le funzionalità sociali (vedasi il recente caso dell’uso che i politici stanno facendo di alcune nuove, per loro, piattaforme).

Luciano Martinoli