Da Ferrero a Google: come deve essere un buon manager. E la sua squadra?

3 febbraio 2021

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Sono frequenti le indicazioni e i suggerimenti sull’argomento. In genere sono frutto di studi o di esperienze personali che appaiono periodicamente sulla stampa specializzata e non. Recentemente mi sono imbattuto sull’argomento attraverso un articolo su un progetto di ricerca di Google e il decalogo di Pietro Ferrero scritto più di 40 anni fa. Balza immediatamente agli occhi la profondità e la saggezza del secondo rispetto al primo, frutto di uno spessore umano dell’imprenditore che il semplicistico progetto con ambizioni “scientifiche” degli americani non può raggiungere.

Il punto però è un altro. In questo come in altri dibattiti sull’argomento, si perde sempre di vista il gruppo, la squadra, il sistema sociale, piccolo o grande che sia, che dovrebbe essere non solo l’oggetto e la cura dell’attività manageriale ma, soprattutto, il soggetto principale, unico protagonista delle prestazioni organizzative. Infatti il manager, si sa, è un costo improduttivo. Nell’ambito della produzione sono gli operai che costruiscono i prodotti, non certo il loro responsabile. Nelle vendite sono i singoli venditori che portano gli ordini dei clienti a casa, non il loro capo, e così via.  

Appare chiaro che la ricerca della ricetta della brava o bravo manager, e l’attenzione e l’importanza che le viene data, parte dall’ implicito presupposto che la squadra da lei o lui gestita sia amorfa, inerme, che può fare bene o male esclusivamente in virtù delle capacità di chi la governa. Sono invece ormai numerosi gli studi disponibili che dimostrano come il talento di un CEO, nel caso del vertice di una grande azienda, contribuisca dal 2 al 22% alle prestazioni dell’azienda di cui è a capo e altri studi parlano addirittura di 4 o 5 punti percentuali.  Di conseguenza non vi è una giustificata relazione tra il suo compenso  e le prestazioni dell’azienda stessa.

Dunque pagare qualcuno di più perché più bravo di un altro, in quanto ha fatto bene da qualche altra parte, non è garanzia di migliori performance dell’organizzazione che è chiamato a guidare.  E’ facile immaginare che correlazioni simili ci siano anche per i livelli più bassi di un amministratore delegato; la mancanza di dati puntuali e specifici delle singole organizzazioni non consentono di effettuare tali ricerche su larga scala. Da tutto questo si deduce che la dimensione organizzativa abbia una sua autonomia che conta molto di più di quella manageriale nell’ottenere le prestazioni desiderate.

Nonostante tali evidenze si spende più sulla ricerca e sugli stipendi dei manager che sullo sviluppo dell’organizzazione, si parla maggiormente di leadership  e meno, o affatto, di ricette per identificare o creare “una buona squadra”, dove il capo sarà uno dei tanti ingredienti esterni (ambientali).

In altre parole, stante così le cose, la “teoria” della singola organizzazione, come essa è o si vorrebbe che fosse, è collocata al suo esterno. La sua definizione viene lasciata all’esperienza o intuizione, entrambi sviluppate spesso in contesti molto differenti, dei singoli manager, disconoscendo così l’autonomia che le evidenze rivelano essere preponderante.

L’organizzazione è un sistema autonomo. Non vivente, perché non si basa su processi biologici che invece sono caratteristici dei corpi fisici dei suoi membri. Ma nemmeno pensante, che invece caratterizza la dimensione psicologica dei componenti del gruppo. Il suo metabolismo è costituito da un intreccio di continue e specifiche comunicazioni che costituiscono il suo caratteristico dominio.

Avere consapevolezza di tali dinamiche aiuterebbe molto di più i manager, e chi li recluta, a comprendere il reale ruolo della “managerialità” nell’interagire con esse. Ridimensionerebbe inoltre la eccessiva, e ingiustificata per quanto detto prima, centralità del manager nella teoria e nella pratica organizzativa, collocandola in una prospettiva più adeguata alle reali necessità organizzativa.  Sarebbe utile per tutti noi, allora, ribaltare questo punto di vista e scoprire così anche nuove pratiche fondate sulla reale comprensione dei fenomeni organizzativi e non sulle intuizioni dal punto di vista del manager, ormai superato. Un passo che andrebbe a beneficio di tutti, manager compresi,  ma soprattutto ai membri e alla organizzazione stessa, di qualsiasi tipo essa sia,  per la sua funzione vitale nella nostra società.

Luciano Martinoli