Adattamento e apprendimento: un cambio di prospettiva 'sistemico'

23 settembre 2020

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L’idea darwiniana dalla quale discende l’ipotesi della necessità delle specie di adattarsi all’ambiente, pena l’estinzione, è stata spesso utilizzata per motivare le organizzazioni a fare lo stesso. Un adattamento di successo si ritiene che sia frutto di un apprendimento e successiva stabilizzazione dei comportamenti conseguenti. La prospettiva sistemica, con le sue conseguenze sulla chiusura operativa del sistema (ovvero le operazioni vengono definite e svolte all’interno) offre una visione più articolata ed efficace del fenomeno, precisando meglio i contenuti e i confini sia dell’adattamento che dell’apprendimento.

Partiamo da qualche doverosa definizione. Heinz von Foerster, il grande cibernetico austriaco, ebbe l’intuizione di distinguere i sistemi con la metafora delle macchine banali e non banali. Sono banali le macchine prive di autosservazione, le quali compiono funzioni immesse dall’esterno e perciò producono per gli stessi input sempre gli stessi risultati. Sono dunque macchine banali l’automobile, la lavatrice, un televisore, un computer in quanto a fronte di uno stesso input producono lo stesso output. Un automobile più che trasportarci in giro non saprà fare, lo stesso dicasi per la lavatrice riguardo la pulizia degli indumenti, il televisore per la proiezione di immagini e il computer per l’elaborazione di dati rispetto ad uno specifico programma. Inoltre tali macchine non hanno capacità di autosservazione, non sono cioè in grado di distinguere se stesse dall’ambiente e, nel caso, modificare da sole le proprie operazione per adattarvicisi.

Non banali sono, al contrario, le macchine “storiche”, le quali in tutte le loro operazioni devono sempre consultare lo stato in cui vengono a trovarsi in seguito alle loro operazioni precedenti. Sono dunque “macchine storiche” certamente tutti i sistemi biologici, dalla cellula ai tessuti ai sistemi fisiologici (ad esempio nel caso animale dei mammiferi quello respiratorio, circolatorio, eccetera) fino agli individui completi, sia del mondo vegetale che animale. Infatti un sistema biologico non avrà sempre la stessa risposta a fronte della medesima sollecitazione ambientale. Se ad esempio il nostro corpo assume un farmaco reagirà in un certo modo. Se però continua ad assumerlo l’operazione interna che realizzerà terrà presente di quella precedente, ovvero che l’ha già assunto, e produrrà risultati diversi da quella precedente (potrebbe mostrare intolleranza, shock, effetti collaterali, eccetera).

 


“Le macchine non banali sono ‘storiche’:
in tutte le loro operazioni devono sempre
consultare lo stato in cui vengono a trovarsi
in seguito alle loro operazioni precedenti.

E’ da notare che questa definizione generale di sistema è basata su una caratteristica delle loro operazioni, le quali danno identità al sistema, e non dalle parti ci cui sono composte. Dunque un automobile, da questo punto di vista, è tale perché si muove grazie alle sue operazioni (sempre le stesse) di iniezione del carburante, scoppio nel motore, trasmissione del movimento alle ruote, eccetera. Un auto spenta, ovvero che non esegue operazioni, non è un sistema ma un ammasso di ferraglia inerte.

Analogamente un animale, ad esempio un cane, è tale se respira, se il sangue circola, se il cervello risponde agli stimoli e così via. Se tutto ciò non accade è morto, non è più sistema ed è solo un cadavere pronto per la decomposizione.

Accogliendo tale tassonomia, che si può dire dell’organizzazione aziendale?

A molti nostalgici dello stile manageriale del secolo scorso, piacerebbe la metafora della macchina banale: un organizzazione ottimizzata sull’efficienza e la produttività, dove la stabilità e la prevedibilità sono le caratteristiche più importanti, le sorprese sono sgradite e i comportamenti devono essere controllati. Esperienza di decenni, oltre che quotidiana, ci mostrano però che così non è. Sorprendentemente sia certa teoria, che la pratica da cui discende, invece di convincersi della necessità di un altro modello si concentrano sulla studio della “devianza” da questa presunta normalità: perché non è così e, soprattutto, come fare per renderla tale!

Dunque l’organizzazione come “macchina non banale”, ovvero come insieme di operazioni, e non parti, che:

  • eseguono di continuo operazioni (altrimenti muoiono come i sistemi biologici);
  • tali operazioni sono sempre frutto di operazioni precedenti:
  • allo stesso tempo si modificano anche rispetto agli stimoli che ricevono dall’ambiente.

Accogliendo questa prospettiva, soprattutto considerando la continuità delle operazioni, in un certo istante l’organizzazione se è in grado di procedere con le sue operazioni è tollerata dall’ambiente. Ne discende che fin quando il sistema riesce a riprodursi (è attivo e “in vita”) il sistema è già adattato. Se l’ambiente evolve gli potrebbe porre dei problemi sulla nuova riproducibilità che il sistema dovrà adottare ma non nei termini di “adattamento” ma di continuazione delle sue operazione nella nuova configurazione. Infatti il sistema non vede mai l’ambiente nella sua totalità, ma solo gli stimoli che è in grado di cogliere per come è fatto. Dunque dal punto di vista interno dell’organizzazione, l’ottica è ribaltata: essa è in grado solo di capire e attivarsi per mantenersi “in vita”, l’ “adattamento” è semplicemente una vista di un osservatore esterno. Adattarsi è un verbo privo di significato dal punto di vista dell’organizzazione, l’unica cosa che conta è continuare le sue operazioni in un contesto modificato.

Le conseguenze di questo ribaltamento prospettico non sono banali. Ciò che dall’esterno consulenti, manager di alto livello, altri osservatori esterni, vedono come modifiche dell’ambiente, non necessariamente possono essere interpretate come necessità di “adattamento” dell’organizzazione che, basata sulle sue esclusive operazioni interne, potrebbe addirittura non comprenderle. Da qui l’altissimo tasso di fallimento dei progetti di “cambiamento” eterodiretti.

Proprio perché l’organizzazione è una “macchina non banale”, ovvero che non reagisce allo stesso modo a fronte degli stessi stimoli, si deve abbandonare l’idea di un accoppiamento stabile tra decisioni del sistema, che costituiscono le principali operazioni del sistema organizzativo, e le reazioni dell’ambiente. Quindi l’organizzazione non può apprendere direttamente dagli effetti che essa produce sull’ambiente. Anche quando l’organizzazione ritiene di poter riconoscere effetti propri sull’ambiente si pongono problemi di attribuzione causale: una determinata ecologia causale si ripeterà?
Inoltre il presupposto generale dell’apprendimento è che l’organizzazione possa distinguere tra successo e insuccesso, criterio base per accogliere o rifiutare una modifica delle proprie operazioni. Essa naturalmente non trova questa distinzione nell’ambiente, ma in se stessa; a maggior ragione anche la statistica della sua interpretazione è, come la distinzione stessa, costruzione interna al sistema. Ancora, dipende dallo stato nel quale il sistema di volta in volta si trova, se e con quale intensità esso può essere influenzato dai suoi successi o dagli insuccessi.

In sintesi possiamo dire allora che l’apprendimento organizzativo, inteso come modalità stabilizzata di adattamento all’ambiente e dunque modifiche a tal scopo delle proprie operazioni, è da ricondurre sempre dentro il sistema, ovvero è una costruzione del sistema e non un “input” dall’ambiente. L’apprendimento inoltre ha bisogno di tempo per realizzarsi, verifiche prudenti e soppesate per esser certi della bontà delle modifiche. Infine apprendimento significa anche dimenticare ciò che si era appreso prima e che non serve più.

Accogliere questa prospettiva significa investigare e fare proprie le caratteristiche e le conseguenze del modello della “macchina non banale” (e che si fa da sé). Il beneficio sarà intravedere nuove e più efficaci modalità d’intervento e, soprattutto, smettere l’esercizio sterile di cercare invano il trucco per far andare avanti le organizzazioni come se fossero motori, con la conseguente necessità di meccanici per renderle adatte all’ambiente.

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