Non esiste “autoregolamentazione” per le Big Tech

16 gennaio 2022

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Queste considerazioni sono state stimolate da un articolo disponibile on line sul tema della “autoregolamentazione” delle big tech attraverso un’intervista al Professor Luciano Flòridi. Il punto di vista che propongo, abbastanza diversa dal consueto, ritengo che, a mio avviso, dia meglio conto delle dinamiche sottostanti.

Piccola premessa sistemica.
Un sistema si “autoregola” solo rispetto alle sue possibilità strutturali di poter esistere continuando le sue operazioni all’interno dell’ambiente. Detto in altri termini, i sistemi sociali, ma anche biologici, hanno una loro struttura che gli consente di effettuare delle operazioni le quali costituiscono la loro attività “vivente”. Ogni sistema è tale rispetto al suo ambiente, multiforme e composto a sua volta da altri sistemi. Tale ambiente muta di continuo e nei suoi cambiamenti potrebbe creare condizioni più favorevoli, o meno, per il sistema che stiamo considerando.

É questo, e solo questo, il caso in cui il sistema si modifica, se le sue strutture glielo consentono, per avvantaggiarsi, se positive, o aggirare, se minaccianti, le nuove situazioni ambientali e consentire il progredire delle sue operazioni, eventualmente modificate.

Il caso delle big tech mi pare non si sottragga a questa logica. I sistemi in questione, Meta ex Facebook, Alphabet casa madre di Google, Apple e altri, sono soprattutto sistemi economici e sopravvivono grazie alle operazioni economiche: scambio di denaro per prestazioni. Nell’effettuare le loro attività hanno creato condizioni favorevoli per il sistema economico nel suo complesso, basti pensare all’enorme ecosistema di terzisti, sviluppatori di App, beneficiari di servizi che oggi prosperano grazie a quei giganti. Ma “l’ambiente” non è fatto solo di economia e la loro crescita dimensionale ha iniziato a creare problemi ad altri sistemi.

Il legislatore è stato chiamato a porre rimedio. Egli, per definizione, non è in grado di anticipare regolamentazioni su fenomeni non ancora evidenti e, soprattutto, che non abbiano dimostrato la necessità di un suo intervento. Chi fa le leggi, in regime democratico o meno, è sempre soggetto alla necessità di rendere il suo operato “collettivamente vincolante” e questa caratteristica potrebbe essere gravemente minacciata se intervenisse a fronte di fenomeni che si rivelassero inesistenti o, al contrario, troppo tardi.

In passato abbiamo assistito a situazioni nelle quali soggetti dimensionalmente eccessivi minacciavano il funzionamento dell’economia nel suo complesso. Sono gli Stati Uniti il paese più sensibile e reattivo a questo tema. Dal suo Sherman Act del 1890, legge federale che sancisce le regole per un libero commercio e protegge la libera competizione, alla Clayton Antitrust Act del 1910, che aggiungeva maggiore specificità per perseguire comportamenti monopolistici, alla costituzione della Federal Trade Commission (FTC), agenzia federale il cui compito è l’applicazione delle leggi antitrust e la promozione della protezione dei consumatori. Questo apparato di controllo diede luogo alla suddivisione della Standard Oil in 34 società (1911), allo smembramento di At&T in 7 aziende chiamate “Baby Bell” (1984), e tante altre operazioni simili. Tutte azioni fatte contro un soggetto (sistema) per difendere il mercato (ambiente).
Balza all’occhio che ho citato solo casi americani. Il motivo è semplice: nel resto del mondo soggetti economici di grandi dimensioni erano possibili solo con i capitali dello Stato, creando dei monopoli accettati da tutti perché… di tutti (essendo Statali).

Essendo monopoli non creavano “mercato” (per quanti anni abbiamo pagato tariffe telefoniche stratosferiche rispetto agli USA?) e non danneggiavano, per tacita accettazione collettiva, altri sistemi nell’ambiente (leggi, etica, ecc.).

Laddove grandi aziende minacciano il sistema economico, le legislazioni nazionali e soprattutto europee sono ben in grado di intervenire a difesa del mercato e del consumatore, come le numerose multe comminate ai big tech e non solo dimostrano. Basta digitare “multe antitrust” su un motore di ricerca per vedere la lista che, oltre ai big tech, contiene nomi della finanza, della telefonia, della vendita al dettaglio di elettronica e tanti altri.

Detto questo appare chiaro come, da questa prospettiva sistemica, i grandi della tecnologia, tutti di stanza negli Stati Uniti, non avranno mai nessun interesse a limitare la loro attività economica se non costretti da coloro che tutelano il mercato (sistema economico) nel suo complesso. Purtroppo le multe, per quanto onerose, sono misure che sanzionano comportamenti contingenti. Iniziative radicali potrebbero prenderle solo i legislatori USA, dove hanno sede questi colossi, con le difficoltà sia di limitare attività economiche in ogni caso benefiche per il mercato, come detto prima, sia di individuare precisamente i danni agli altri sistemi sociali (l’attenzione delle persone, la disattenzione indotta nei minori, ecc.). Quanto sia difficile tale operazione, per la stretta connessione tra politica, economia e consenso, è dimostrato, ad esempio, nei casi nostrani di alcuni anni fa sulla legislazione dei media per contrastare lo strapotere di Mediaset (che di certo non si è “autoregolata”).

La regolamentazione per le Big Tech è resa ancora più complessa dal fatto che oggi si chiede di intervenire per danni che non ricadono nella sfera economica o in quella della salute fisica dei consumatori, per i quali i nostri sistemi legislativi sono già attrezzati a reagire, da questa come dall’altra parte dell’oceano. L’uso degli strumenti Facebook o Google infatti non costa niente e non danneggia i polmoni o lo stomaco degli utenti, come fanno i prodotti delle altre multinazionali del tabacco o alimentari.

Oggi si sta puntando il dito su danni psicologici agli utenti, tutti da dimostrare e con le difficoltà di farlo. Inoltre si dimentica costantemente che il  impatto sulle nostre vite di questi colossi è determinato da noi stessi. Nessuna Big Tech ha capacità o interesse a conoscere le nostre vite o a “guidarci” verso comportamenti diversi da quelli di cliccare sui contenuti delle loro piattaforme. I loro servizi sono tutti orientati a verificare l’interesse di quanti di noi saranno interessati a certi contenuti, e tali interessi li generiamo noi stessi interagendo con i loro servizi. Una sorta di specchi che noi erroneamente pensiamo capaci di generare una realtà in autonomia mentre invece dimentichiamo, o non sappiamo, che le immagini che ci ritornano sono quelle dei nostri stessi comportamenti. Una cantonata “filosofica” che mina qualsiasi serio dibattito sull’argomento, che pur rimane problematico.

Luciano Martinoli