Il messaggio dietro lo “share-buybacks”

21 maggio 2021

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E’ notizia recente di un ritorno delle aziende europee al riacquisto di azioni proprie, o shares-buybacks; tra queste vi anche la nostra ENI. Questa pratica finanziaria è oggetto di un ampio dibattito negli Stati Uniti, dove è molto più diffusa, in quanto fa emergere un quesito chiave alla base dello sviluppo dell’economia e della nostra società: come usano le aziende il loro denaro?

Per chi non lo conoscesse il riacquisto di azioni proprie consiste, in presenza di abbondante disponibilità di utili aziendali, nell’acquisto in borsa da parte di una impresa delle sue stesse azioni. L’azienda diventa in parte proprietaria di se stessa. Quali sono i benefici, e per chi?

Lo shares-buybacks (per chi volesse saperne di più in modo chiaro ed efficace consiglio la visione di questo video) è un modo alternativo di remunerare il capitale rispetto al pagamento di dividendi. Infatti togliendo dal mercato, la borsa, un certo numero di azioni, queste varranno di più grazie ad una minore disponibilità. Inoltre migliora un parametro al quale gli investitori sono molto attenti: il guadagno per azione o EPS (Earning Per Share). Esso è costituito dal rapporto tra utili aziendali e numero di azioni disponibili. In diminuzione del denominatore, le azioni, e a parità del numeratore, utili, il rapporto migliora, le azioni sono più appetibili, salgono di valore, chi le possiede è “più ricco” (se le vende). Dunque il beneficiario è l’azionista, rafforzando quella pratica dello shareholder-value oggi tanto discussa, e i manager che decidono questa manovra, che essendo pagati anche con stock options (opzioni di acquisto azioni con prezzo prefissato) ottengono un importante guadagno.

Gli utili aziendali, come sostengono osservatori e anche alcuni legislatori USA che vorrebbero tassare lo share-buybacks, potrebbero però essere impiegati in modo più profittevole. Sia per l’economia che per l’azienda stessa, invece di continuare ad alimentare la finanza (Wall Street) staccandola sempre di più dall’economia reale (Main Street). Aumentare la ricerca e sviluppo per differenziare e migliorare l’offerta dell’impresa; spendere in conto capitale per acquisti di macchinari, edifici produttivi e brevetti; aumento di salari, stipendi, formazione, piani sanitari e pensionistici per migliorare la qualità e la fedeltà dei dipendenti, sono alcuni degli usi alternativi degli utili aziendali.

 

Come usano le aziende il loro denaro?

Vi è però una motivazione più profonda alla radice del riacquisto, come viene affermato alla fine del video del Wall Street Journal prima segnalato: Se un’azienda non vede per i soldi che genera un uso profittevole per il suo business, è meglio che  li restituisca agli azionisti che, in qualità di investitori, provvederanno ad utilizzarli sostenendo iniziative più profittevoli. Ma se nell’economia reale tutte le aziende si comportano allo stesso modo, dove mettere i soldi? In attività puramente finanziarie, e forse è questa la spiegazione della crescita abnorme di Wall Street rispetto a Main Street.

Da questa prospettiva il riacquisto di azioni proprie, così come pure lo stacco di cedole troppo ricche, sono allora un chiaro  segnale di un deficit strategico da parte del gestore (il management) che dovrebbe preoccupare e non far contento l’azionista. Un’impresa che crea denaro ma non sa, a giudizio del management, come ulteriormente utilizzarlo, è il segnale allarmante dell’inizio della fine di un business. Infatti quella situazione di stabilità (se non investo nelle attività caratteristiche queste rimarranno identiche) è illusoria in un contesto che cambia di continuo. E l’adeguamento a tal contesto necessita investimenti dentro l’azienda, non azioni proprie o dividendi a beneficio di chi sta fuori di essa.

Temo però che vi sia un messaggio ancor più profondo, e drammatico, che ci arriva dallo share-buybacks: stiamo toccando con mano i limiti del nostro modello di sviluppo. Dopo aver consumato le risorse del pianeta, segnali di questo tipo ci indicano che abbiamo esaurito anche il “serbatoio di significato” che alimentava le attività economiche e di tutta la società moderna, se considerando l’importanza che abbiamo dato ad esse. Cercare di imbrigliare questo, come altri fenomeni, non farà altro che mostrare quanto la coperta sia corta: tassare il riacquisto forse incoraggerà l’aumento di stipendi, ma a danno della competitività di chi lo fa. Aumentare le spese in conto capitale renderà più produttiva ed efficiente un’impresa, ma chi comprerà più prodotti se hanno perso di interesse?

Il dibattito allora si deve spostare sul piano strategico (quale direzione prendere), da parte delle imprese e dei suoi proprietari (gli azionisti). E in senso più generale, sul piano politico per stimolare la progettualità di una nuova socialità e non il perpetuarsi di quella di ieri cercando di conviverci minimizzandone i danni sempre più evidenti. Proprio la crisi pandemica che abbiamo vissuto ci ha dato la possibilità di chiederci se davvero vogliamo che il mondo “torni come prima”. La risposta però richiederà uno sforzo basato sulla ricerca di una nuova prospettiva dalla quale osservare le imprese, le loro organizzazioni, la società intera.

Luciano Martinoli