Dal Performance Management alla Costruzione dell’Identità “profilata”

28 gennaio 2021

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La necessità del Performance Management (PM) nasce dalla necessità di far emergere la conoscenza sulle reali capacità  prestazionali di un dipendente a livello “organizzativo”. Il capo, i membri di un team o del resto dell’organizzazione conoscono bene tali capacità, ma anche quelle personali, di un collega. Tale conoscenza però è confinata a livello del dominio psicologico dei singoli, non ha alcuna valenza organizzativa; si potrebbe addirittura dire che l’organizzazione, in questo caso, la ignora. Il PM, a ben vedere, è allora la continua ricostruzione puntuale, a beneficio dell’organizzazione, delle “identità” professionali dei singoli membri; un riconoscimento implicito della loro capacità evolutiva. In questo modo tali identità saranno ufficialmente note e leggibili all’interno del sistema-organizzazione e, di conseguenza, sarà possibile consentire delle decisioni organizzativamente motivate su di esse: aumento di stipendio, promozione, necessità di training, eccetera.

Un recente articolo di Harvard Business Review propone una nuova modalità per realizzare il PM, certamente più in linea con i tempi: la valutazione delle performance eseguita dai pari, cioè da più o meno tutti coloro, capi o meno, che hanno a che fare con il valutando. Lascio alla lettura dell’articolo la descrizione delle modalità con le quali poter implementare questa prassi.

L’aspetto più interessante, non emerso nell’articolo, è il riconoscimento di uno spostamento della tecnologia di costruzione di identità specifica, quella di interesse dell’organizzazione, verso una già ampiamente adottata nella società del XXI secolo: la “profilazione” (Profilicity).

 

 

 

“…il “posto” dove è assegnato il singolo non definisce più la sua identità organizzativa.”

Lo scopo del PM è quello, come già detto, di descrivere capacità e potenzialità professionali al fine di prendere decisioni organizzativamente rilevanti su di esse.

Si tratta dunque di una modalità (tecnologia) di costruzione di identità relativa alla specifica organizzazione (che è interessata, ad esempio, alle competenze tecniche di sviluppo software o alla capacità di risolvere i problemi dei clienti e non certo all’abilità di pesca, di cucina o di essere una buona madre o un buon padre, caratteristiche che pure sono costituenti dell’individuo). 

In passato l’identità organizzativa, e non solo, era costituita dalla posizione nell’organigramma (Sincerity) con associati i percorsi di carriera predefiniti. Non vi era nulla da valutare e il destino organizzativo era segnato, a meno di eventi eccezionalmente positivi o gravi. Un operaio era e rimaneva tale, solo l’anzianità professionale decideva gli eventuali avanzamenti di carriera.

Col tempo le organizzazioni sono evolute in forme meno rigide, meno strutturate e fornendo maggiore libertà e responsabilità ai dipendenti. Lo scopo era di consentire un migliore e più rapido adeguamento alle condizioni ambientali organizzative (esterne ad esse) le quali cambiavano con maggiore velocità che in passato, rendendo impraticabile la definizione di un assetto ottimale attraverso un “organigramma” rigido (o anche frequentemente aggiornato).  Di conseguenza il “posto” dove era assegnato il singolo, e la sua pre-ordinata progressione, non definiva più completamente la sua identità organizzativa. Per ogni dipendente ora vi erano davanti quasi infinite possibilità di crescita professionale in tutte le direzioni, secondo le sue volontà e i suoi desideri. Il dipendente poteva definire da sé la sua identità professionale (Autenticity). Ovviamente con i confini professionali non più perfettamente identificati dalla posizione organizzativa, vi era la necessità di dotarsi di una nuova tecnologia per rispondere alla domanda: chi è davvero costei/costui per l’organizzazione?

Emerse allora il PM, una modalità fluida ufficialmente per “gestire” le prestazioni ma, a ben vedere, è prima di tutto la ridefinizione periodica della professionalità del singolo al fine di comprenderne le potenzialità, gli spazi di miglioramento, ma anche il riconoscimento economico e gerarchico (aumenti salariali e carriera). Non era più tanto il “posto” che si occupava in azienda a definire chi si era all’interno dell’organizzazione, quanto la valutazione del proprio capo.

L’articolo citato propone una tecnologia di costruzione dell’identità, più che di gestione delle prestazioni, che è già ampiamente utilizzata fuori dei confini organizzativi. Un tratto caratteristico della nostra società, infatti, è l’osservazione del secondo ordine, ovvero osserviamo chi osserva la realtà, non direttamente essa. Questo ha degli svantaggi, dipendiamo dalle osservazione degli altri, ma anche vantaggi, riusciamo ad osservare, anche se solo indirettamente, molte più cose. I social media, da questo punto di vista, svolgono una funzione fondamentale: consentono di osservare come gli altri ci osservano e, di conseguenza, di costruire la nostra identità, di capire chi siamo per come gli altri ci osservano. Il numero di likes di Facebook, quello dei follower di Youtube ci dicono chi siamo, così come un buon ristorante o un eccellente appartamento è quello che ha più numerose e migliori recensioni su TripAdvisor o Airbnb, e così via.

L’idea degli autori è allora quello di riproporre, come già fanno alcune aziende, la stessa modalità di definizione dell’identità (Profilicity) anche per quella interna organizzativa: la peer review, ovvero il giudizio degli “altri” (in altri contesti si potrebbe dire “la gente”!); un giudizio indifferenziato, anonimo o meno.

La tecnica è ben nota nell’ambito accademico per la valutazione dei contributi scientifici e, ovviamente, ne sono conosciuti anche i limiti (si tende a valutare ciò che si sa e non la reale innovazione, che per definizione non è ancora conosciuta, vi è di conseguenza un appiattimento verso lo standard noto a tutti, conta la numerosità dei giudizi rispetto alla loro qualità, ecc.).

Ciononostante il Profilicity è una realtà che non può essere ignorata, dunque ben venga il suggerimento di adottarlo anche in azienda. Un modo per minimizzarne i rischi è, come sempre, quello di non dipendere troppo, o esclusivamente, da una specifica prassi. La peer review dovrebbe essere temperata, come avviene anche nella vita sociale, dalle altre modalità identitarie. Nessuno dipende solo dai likes o dai follower, chi lo fa prima poi interrompe per non impazzire dietro le stressanti richieste delle piattaforme e del general peer. Siamo ciò che siamo anche per la nascita e il luogo dove viviamo (Sincerity) e ciò che abbiamo fatto e vorremo fare (Autenticity). Analogamente all’interno dell’organizzazione dovrebbe esserci un tale mix di modalità spostando però il focus di questi strumenti più sulla costruzione della identità professionale a fini organizzativi che sulla gestione delle prestazione, quest’ultima troppo simile all’inapplicabile metafora meccanica e irrispettosamente vicina alla sfera personale.

Luciano Martinoli