“The Social Dilemma” e il dilemma che non affronta

15 dicembre 2020

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E’ disponibile da qualche settimana sulla piattaforma Netflix il film-documentario “The Social Dilemma” sulla realtà dei social media e l’impatto che hanno sulla vita di tutti noi. In rete vi sono commenti di varie testate ed esperti sul contenuto del film, ma nessuno coglie il vero senso del dilemma che il film solleva in maniera paradossale: anche per dire qualcosa contro i social dobbiamo usare i social!

Il professor Hans-Georg Moeller, filosofo tedesco che insegna all’università di Macao in Cina, costruisce la critica del fenomeno da questa prospettiva che è sotto gli occhi di tutti noi ma, inspiegabilmente, non viene riconosciuta (soprattutto dalle organizzazioni).

L’articolo originale è disponibile qui  “The Hypocrisy of The Social Dilemma: Life in Today’s Media Matrix – A Commentary by Hans-Georg Moeller”  (Per ricevere la sua traduzione integrale scrivere a [email protected] ).

Il primo aspetto paradossale del film è che vuole dare consigli e avvertenze sul funzionamento delle piattaforme social, ma lo fa usando le stesse piattaforme: Netflix ma anche Facebook e Instagram i cui link sono presenti sul sito del film. Già da qui emerge la sconvolgente verità: se vogliamo parlare di qualcosa, fosse anche contro i social media, non possiamo farlo se non usandoli. Oltre loro vi è il nulla.

A ben vedere questo è vero da molto tempo in generale per tutti i media. 

Sappiamo tutto, dal riscaldamento globale al coronavirus, da Donald Trump a Black Lives Matter, da quanto viene detto dai media. In effetti, sappiamo molto sui nostri amici più cari interagendo con loro anche sui social media. Li vediamo lì nel modo in cui osservano e poi si mostrano. In quasi tutti i settori della nostra esperienza di vita, dalla politica all’economia alle nostre relazioni personali, abbiamo imparato a comprendere la realtà in termini di come viene osservata e presentata in pubblico.

E’ dall’invenzione della stampa che vi è nella società un progressivo ed inarrestabile spostamento verso la osservazione di secondo ordine, come viene definita dal teorico sociale Niklas Luhmann. Noi osserviamo la realtà prevalentemente in maniera indiretta,  attraverso la rappresentazione che ne viene data da altri attraverso i media. Cosa è infatti un evento di cronaca che appare in TV, o pubblicato su un giornale, se non la vista di quel fatto di un giornalista, secondo le direttive dell’editore per cui lavora? E il sentimento di amore tra due personaggi di un film che raccontano una storia inventata o reale, non è la vista dello sceneggiatore, quella del regista e degli attori, sotto le indicazioni di gradimento o meno dei produttori che finanziano l’opera?

 

“E’ dall’invenzione della stampa
che vi è nella società un progressivo ed inarrestabile spostamento verso la osservazione di secondo ordine.”

Questo ha portato col tempo a cambiare anche le modalità con le quali costruiamo la nostra identità e quella degli altri: osserviamo quanto osservano gli altri su di noi e sugli altri.

Quando vogliamo vedere chi siamo, dobbiamo vedere come veniamo visti.

Il luogo dove tali osservazioni sono reperibili sono proprio le piattaforme social. E’ in quei luoghi che si formano le opinioni su di noi, che vogliamo o no. E’ lì che in modo artefatto, ma reale, costruiamo, anche inconsciamente, i “profili” che costituiscono  la nostra identità (e meglio di noi, in modo professionale, lo fanno i cosiddetti “influencer”).

Come afferma Moeller:

L’identità oggi si forma nei profili e i media sono lo spazio pubblico in cui i profili prosperano.

A partire da questa realtà sotto gli occhi di tutti, ben vengano le denunce degli abusi e delle manipolazioni dei social media (che poi non sono altro che la sostituzione di presunti abusi e manipolazioni passati ovvero meccanismi di influenza che ci sono sempre stati, come Moeller spiega bene nell’articolo). Ma bisogna guardare anche all’altra faccia della medaglia, attività che pare sfuggire a tutti: perché senza nessuna coercizione Facebook ha alcuni miliardi di utenti, Netflix più di cento milioni abbonati, Google ha il 98% del mercato delle ricerche su internet e così via per le altre piattaforme?

La risposta più comune fino a qualche tempo fa è che erano stati bravi a inventare qualcosa di nuovo. La risposta di oggi è che sono bravi a creare dipendenza e a manipolarci, ma forse la vera risposta è che noi, membri costituenti la società della osservazione del secondo ordine, abbiamo bisogno  dei media dove poggiare le nostre osservazioni al fine di mettere in moto la “general peer view” (o più prosaicamente: quello che pensa la gente) di cui abbiamo tanto bisogno per supportare il nostro profilo, cioè la nostra identità.

Dunque, come denuncia Moeller:

il racconto (The Social Dilemma) è fatto, raccontato, diffuso e venduto dalla stessa industria, con gli stessi mezzi di comunicazione e per gli stessi scopi economici che condanna con tanta forza.

E inoltre

Gli ex professionisti e famosi critici dei media presenti in The Social Dilemma parlano a volte come se fossero salvatori dall’alto, portandoci fuori dall’abisso dei media. L’ironia è che tutti devono il loro status di autorità, la loro licenza di darci lezioni, interamente agli stessi media che ce li presentano come tali.

Ma questa è, appunto, solo l’ironia di The Social Dilemma. Il fatto drammatico, poco investigato, è che

…i nuovi media sono diventati una realtà sociale che non ha un alternativa, non esiste nulla al di fuori di essa. Qualunque cosa tu dica contro di loro deve essere detta attraverso di loro, altrimenti non può essere ascoltata. Di fatto The Social Dilemma invece di esaminare  questo dilemma di base dei media odierni, lo copre.

E inoltre

… è ipocrita perché manipola presentandosi come un combattente contro la manipolazione, perché vende rimedi a buon prezzo contro gli eccessi del capitalismo e perché è promosso come un film “da guardare” che aiuta le persone a liberarsi dalla loro compulsività di visione.

Cosa fare allora?
Accettare passivamente? Rifiutare acriticamente?
Una soluzione, che forse è “la” soluzione, è smetterla di cercare “soluzioni”!
Le soluzioni, in un mondo complesso e paradossale come il nostro, sono solo scuse per andare avanti, illusori ponti nell’ignoto che ci danno la motivazione per procedere in una direzione.
Vi è allora la necessità di un cambio di attitudine radicale, non solo a livello personale ma anche (forse soprattutto) a livello organizzativo. Quale debba essere, nel caso dei social (e non solo), ce lo suggerisce lo stesso Moeller:

Dobbiamo affinare il nostro senso critico per i paradossi e le contraddizioni dei media e del mondo della vita che costituiscono… possiamo prendere coscienza delle ironie dello spettacolo mediatico in cui siamo profondamente coinvolti. La consapevolezza di tali ironie e di come si applicano non solo alle “verità” che ci vengono presentate, ma anche ai profili che curiamo di noi stessi, è un primo passo per affrontare in modo produttivo il vero dilemma sociale in cui ci troviamo: l’autoreferenziale mondo della realtà mediatica che non ha un fuori.

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