Strutture per risolvere i problemi

24 ottobre 2020

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Nelle teorie e nelle prassi organizzative, prevale la tendenza allo strutturalismo ovvero l’ideazione di strutture che possano risolvere, se dispiegate, i paradossi e gli effetti indesiderati che generano ‘problemi’. Si cerca, in altre parole, di dare una ‘forma’ che prevenga, scongiuri o addirittura risolvi tali problemi “per disegno”.

Nell’ambito del successivo processo attuativo di tali strutture, l’effetto è facilmente prevedibile: emergono esiti indesiderati che rendono il risultato ben distante da ciò che si era pensato e si voleva realizzare. Da qui partono poi le analisi di “devianza” (sia della struttura che della sua implementazione), cosa e perché non ha funzionato, si cerca di porvi rimedio e, nel caso, di ripetere il tentativo. Il tutto procede fino a quando ci si rende conto che, essendo nel frattempo il mondo nel quale l’organizzazione è immersa andato avanti ed essendosi  profondamente trasformato, non valga più la pena realizzare quella struttura. Non tarderà però ad affascinare una nuova proposta di struttura, vecchia o nuova che sia, che si cercherà stavolta di dispiegare con maggior successo, assistendo però a quanto già accaduto in precedenza.

Gli esempi  sono numerosissimi: si va dalla lean organization, alla leadership diffusa, dal talent management alla bossless organization a chi addirittura ripropone una versione aggiornata del taylorismo. Ognuna è più o meno di moda secondo la capacita della società di consulenza di turno, in genere una delle big ma non solo, in grado di convincere un grande cliente che si spera, nel caso di successo, possa definire una tendenza che altri seguiranno. In alternativa vi è un professore di una business school, rigorosamente straniero meglio se americano, che con un suo libro nel quale è illustrata “l’idea” (10% delle pagine) con abbondanza di casi reali (il rimanente 90% ), porta all’attenzione del mercato la sua nuova struttura (da Porter  agli autori di Oceano blu  la bibliografia è vasta).

Il confronto teorico dei vari strutturalismi non porta molto lontano, a meno di non affrontare un’approfondita analisi sul piano teoretico. Ogni proposta ha una sua logica e parte da alcuni presupposti assolutamente condivisibili; sulla carta ogni idea è buona.  La critica sulla mancata erogazione dei benefici attesi si sposta allora sul piano dell’operatività, su quei progetti di “cambiamento” che non hanno funzionato, per un motivo o per un altro. Tra le cause più universalmente citate vi è la famosa “resistenza” dei singoli che, secondo i più, affonda le sue radici nella loro psicologia (paura dell’ignoto, desiderio di stabilità, ecc.). Le motivazioni prettamente organizzative raramente vengono prese in considerazione, ancor meno si pensa che tale fenomeno possa essere una mera costruzione dell’osservatore.  

 

Il fondamento del change management é:  non è possibile che non si possa cambiare.

Laddove fallisce si interroga sulle devianze.

Prolifica così il cosiddetto change management il cui scopo è quello di trovare modalità e tecniche per impiantare strutture prescindendo dalla loro natura. Poiché il cambiamento è così trasversale alle teorie, dunque di interesse generale, il grado di attenzione che godono le teorie del cambiamento è elevatissimo. Il change management, così, si è sviluppato staccato logicamente dallo strutturalismo al quale dovrebbe fornire servizio. Una cesura che non poteva essere evitata, visto l’impianto metodologico scelto, e che porta lo stesso change management a interrogarsi ripetutamente sulle devianze, senza mai mettere in discussione la sua ragione di esistere, in quanto il suo fondamento è:  non è possibile che non si possa cambiare!

Un percorso diverso, che mira a sciogliere alla radice questi problemi, è quello di risolvere paradossi ed effetti indesiderati (i problemi organizzativi) a livello operativo. Ogni struttura è buona, per alcune cose, e inadeguata, per altre. Allora la sua scelta deve avere lo scopo non di tentare di “risolvere” a priori, ma di “dare forma al meglio” per come si vuole agire nell’ambiente dell’organizzazione (mercato per le aziende, patologie dei pazienti per gli ospedali, eccetera).

Spostato il tema dei “problemi” sul piano operativo, rimane il quesito iniziale: come affrontare la loro risoluzione. Ovviamente non tornando a chiedere aiuto alle strutture, altrimenti si sarebbe di nuovo al punto di partenza, ma promuovendo una “attitudine” che lasci l’organizzazione, nella forma che si è data, l’onere di affrontarli e andare avanti. Una autocomprensione che permetta alle organizzazioni di rispondere delle proprie questioni in quanto solo loro, meglio di chiunque altro, possono trovare il modo di venire a capo dei propri problemi.  

Acquisire tale attitudine non è attività consulenziale nel senso classico del termine. Si deve partire accogliendo una vista sull’organizzazione che però si deve focalizzare non su “cosa” essa sia ma sul  “come” essa è così come è. Questo è un’importante spartiacque con l’approccio strutturalista: le operazioni, condizionate dalla struttura, come fulcro dell’esistenza delle organizzazioni invece che le strutture che generano organizzazioni con le loro operazioni strutturate.

Questo cambio di paradigma ha anche l’enorme vantaggio di scongiurare la guerra di opinioni che si scatena in genere sulle ontologie (“secondo me l’organizzazione deve essere questo mentre invece secondo te è altro”). Inoltre ci si deve poggiare su una “super-teoria” che parta dall’assunto che nessuna teoria è super, e ciò deve essere valido anche per essa stessa, scongiurando così gli estremismi e le sovra-identificazioni che generano contrasti, danni e alla lunga perdono di senso (chi ricorda il six-sigma e le sue classificazioni di competenza per “cintura” in stile karatè?).

Dunque una vera novità nel campo non è una nuova teoria strutturalista, con la quale predisporre la risoluzione o prevenire l’insorgenza dei problemi, ma una attitudine che faccia saltare tutto questo impianto e aiuti l’intera organizzazione ad affrontare i problemi operativamente, indipendentemente dalla struttura che si è data.

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