Non sei pagato per le tue performance

5 marzo 2021

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Il professor Jake Rosenfeld della Washington University di Saint Louis è autore di alcuni libri sull’argomento. In un articolo di sintesi apparso su Harvard Business Review illustra la sua tesi partendo dai falsi miti sui quali è basata questa errata convinzione.

Il primo è la separazione della propria performance dal contributo di quella degli altri. Sono molto poche le attività in cui è possibile una tale netta separazione. Ormai gli ambienti di lavoro sono sempre più interconnessi e il contributo a ciò che faccamo è intrecciato a quello degli altri in modo inestricabile.  Ci sono milioni di profili professionali con queste caratteristiche. Non si è riusciti ancora a trovare una misura della performance individuale semplicemente perchè non esiste.

Il secondo mito è quello della performance legata ad un obiettivo. Anche qui è raro che tutti siano d’accordo sulla univoca definizione della natura di un lavoro. Ne consegue che se non vi è la possibilità di definire chiaramente una missione è impossibile misurare la prestazione ottenuta per conseguirla. Anche laddove si volesse semplificare al massimo un obiettivo, per facilitare la misura della performance, si scoprirebbero ben presto che, come effetti secondari, si sono incentivati comportamenti indesiderati o, in casi estremi, addirittura fraudolenti.  Questo perché la definizione di performance in qualsiasi lavoro implica scelte e compromessi in quanto non c’è una sola vera misura obiettiva in attesa di essere scoperta.

Il terzo mito riguarda la convinzione che le prestazioni individuali portino a positivi risultati organizzativi. E’ raro il lavoro nel quale si opera in totale isolamento. Negli ambienti di lavoro che funzionano bene si impara, si coopera, si assiste coloro che ci stanno intorno. Sono queste interazioni che influenzano la nostra personale performance.

Per quale motivo allora si continuano a fare, o si invocano, le valutazioni delle performance?

Una possibile spiegazione deriva dalla necessità, a livello organizzativo, di venire periodicamente a conoscenza della “identità” dei singoli. In passato tale problema era risolto con il semplice posizionamento all’interno delle gerarchie. Queste erano rigide e vi era la possibilità di codificare in maniera estremamente precisa le mansioni e i risultati attesi nel tempo consentendo, per il riconoscimento di avanzamenti di posizioni e aumenti salariali, la definizione di piani di carriera. Tutti sapevano chi era ognuno per definizione del posto che occupava.

Le organizzazioni però hanno dovuto abbandonare questi assetti interni in quanto non garantivano più la necessaria flessibilità richiesta dal contesto in cui ormai operano da tempo. Certo le gerarchie non sono scomparse, ma sono rimaste come riferimenti elastici strutturali, rendendo così impossibile la definizione dei vecchi piani di carriera. Essere in un certo posto, avere un determinato titolo corrispondente ad una specifica mansione non è più sufficiente a determinare il proprio profilo organizzativo proprio per le difficoltà identificate dal professor Rosenfeld. Ovviamente il capo e i colleghi sanno bene noi chi siamo, e non siamo, ma si tratta di un know-how personale, che risiede dentro il dominio psicologico dei singoli e non fruibile organizzativamente (e non solo per meri motivi “comunicativi”).

 

 

…è raro che tutti siano d’accordo sulla univoca definizione della natura di un lavoro”.

Ecco allora che alcuni decenni fa emerse la Performance Evaluation come strumento per dar conto organizzativamente dell’identità professionale con la scusa della prestazione. Se accettiamo però l’esigenza di una evidenza organizzativa del profilo professionale del dipendente, pur constatando l’impossibilità di realizzarla con la valutazione delle performance per i motivi qui esposti, rimane il problema del come soddisfarla.

La soluzione più naturale sembrerebbe essere quella di affidarsi a valutazioni ”sociali” che aiutino a costruire un “profilo” del dipendente grazie al soddisfacimento, o meno, di un certo numero di parametri; né più né meno di come già viene fatto fuori i confini dell’organizzazione con i social media. Questi infatti non sono altro che i luoghi dove gli indici di gradimento sono assemblati e rappresentati in modo impersonale (i likes di Facebook, i pallini di Tripadvisor, i follower di Youtube, ma anche la classe di rischio per le assicurazioni, il merito di credito delle agenzie di rating e molto altro ancora). Il risultato di queste valutazioni lo si può riassumere come il parere del “general peer”, quindi non un singolo noto, come potrebbe essere il capo del dipendente che anche inconsciamente potrebbe essere influenzato nella valutazione da suoi pregiudizi personali inessenziali ai fini organizzativi.

La ricostruzione dell’identità fatta in questo modo poi sarebbe una base molto più solida per la reale  valutazione salariale secondo i quattro parametri illustrati dal professor Rosenfeld: potere, inerzia, imitazione ed equità. L’esercizio del potere è infatti una importante forza che determina la definizione di uno stipendio. Questo potere però non è più univocamente determinato dalla posizione gerarchica ma da come gli altri vedono l’identità del singolo. Si pensi ad un ottimo venditore che gode della fiducia dei suoi clienti, o di un impiegato ammirato dai colleghi. Che potere ha una sua disaffezione al lavoro, portandolo eventualmente all’estrema conseguenza di licenziarsi, sui clienti e su analoghe decisione dei colleghi?

L’inerzia è conseguenza di lotte di potere passate i cui risultati sono stati codificati. Ma, come abbiamo visto, in un ambiente dinamico il passato non necessariamente può essere dato per valido anche nel presente. Ecco perché scoprire socialmente la vera identità del singolo può rivelare anche come tali inerzie potrebbero essere non solo inefficaci ma addirittura pericolose.

La costruzione sociale dell’identità inoltre risolve anche il problema dell’imitazione. In genere nell’offerta salariale si tende ad uniformarsi ai concorrenti scongiurando così le lamentele o richieste ulteriori. Il profilo sociale invece aiuterebbe a costruire griglie salariali più vicine alle reali esigenze organizzative che sono quelle di soddisfare le richieste degli “altri”.  Per lo stesso motivo si indirizzerebbe anche l’ultimo problema che è quello della richiesta di equità in quanto tale non sarebbe sostenibile a fronte di differenze note pubblicamente.

In conclusione, la costruzione dell’identità così ottenuta, se attentamente progettata e implementata, sarebbe certamente più equa, con una vera base democratica e più vicina alle reali esigenze organizzative di oggi: come la valutano gli altri .

Luciano Martinoli