Non “Intelligenza” ma “Comunicazione” Artificiale

11 giugno 2020

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Un articolo della Professoressa Elena Esposito di qualche anno fa, offre una prospettiva assolutamente originale e ricca di spunti su un tema di cui si dibatte sempre più spesso e che sta lentamente entrando nell’agenda di chi gestisce le organizzazioni: l’Intelligenza Artificiale (o AI: Artificial Intelligence).
Gli algoritmi arriveranno davvero a sostituire il lavoro delle persone? E quali? Con che effetti sull’organizzazione? Se così fosse avremo dei colleghi elettronici al posto di quelli in carne ed ossa?

La Esposito fin dalle prime righe propone lo spostamento del punto di vista sugli algoritmi di AI: dalla intelligenza alla comunicazione. Ad esempio nel caso del cosiddetto ‘auto-apprendimento’:

“La vera novità della comunicazione (di questi) algoritmi … è una condizione senza precedenti in cui le macchine approfittano in modo parassitario della partecipazione dell’utente sul web per sviluppare la loro abilità per comunicare con competenza e in maniera informata…”

Quindi tali algoritmi sono progettati per fare i parassiti nel senso che sfruttano ciò che altri esseri umani fanno e, in virtù della enorme rete di informazioni da loro non create né tantomeno comprese, danno l’impressione di produrre ’informazione intelligente’: ciò che l’utente non sapeva. A sottolineare questo meccanismo l’autrice aggiunge:

“Ciò che rende gli algoritmi socialmente rilevanti e utili è la loro abilità di agire come partner nella comunicazione che produce e far circolare informazione, indipendentemente dall’intelligenza.”

A questo punto è il caso fare una piccola digressione sulla comunicazione e quali sono la basi scientifiche sulle quali si regge la sua tesi: la Teoria dei Sistemi Sociali di Luhmann.

“Per Luhmann la comunicazione esiste non quando qualcuno dice qualcosa, ma quando qualcuno realizza che qualcun altro ha detto qualcosa. Potete scrivere libri interi o fare discorsi elaborati, ma se nessuno legge o ascolta non è plausibile pensare che la comunicazione sia avvenuta.”

“Ci deve essere qualcuno (o più persone) che per qualche ragione ascolta, legge, guarda che qualcun altro per qualche ragione pronunzia qualcosa. Questo distingue la comunicazione dalla semplice percezione, inclusa la percezione degli altri e del loro comportamento. Otteniamo un sacco di informazioni osservando (o analizzando) non solo oggetti ed esseri viventi ma anche l’aspetto e il comportamento degli umani; studiamo piante e pietre, macchine e corpo ma non comunichiamo con loro. La comunicazione avviene quando un osservatore non solo impara qualcosa ma conosce anche che qualcuno sta intenzionalmente dicendo (o scrivendo o in qualche modo trasmettendo) questo qualcosa, cioè quando egli non solo ottiene informazione ma sa che qualcuno vuole trasmetterla. Questo non può essere dato per scontato perché ognuno può rivolgere la sua attenzione laddove vuole e di conseguenza ogni osservazione non è una comunicazione”.

Ma se la comunicazione avviene se ci accorgiamo che qualcuno vuole farlo con noi, come possiamo affermare che un algoritmo, tra l’altro stupido, riesce a comunicare?

La risposta è nella definizione di comunicazione di Luhmann. Egli prese distanza dalla teoria matematica dell’Informazione, che è alla base del funzionamento dei computer e delle reti di trasmissione dati, specificando che la comunicazione è fatta di tre componenti e si realizza solo quando tutte e tre sono state compiuti.

Il primo è l’informazione, ovvero l’elemento che si vuole trasmettere, scelto tra gli infiniti che sono a disposizione della nostra mente o dei nostri sensi. 

Il secondo è la modalità: parlo o scrivo? Disegno o faccio gesti? E inoltre: urlo o dico sottovoce? Scrivo a mano o al computer?
Il terzo è l’elemento qualificante e che motiva quanto detto prima: la comprensione. Solo quando avviene la comprensione delle prime due parti è avvenuta la comunicazione, ma la comprensione non è sotto il controllo di chi decide di comunicare. Se voglio comunicare sono  responsabile di cosa trasmetto e come ma non riesco ad imporre la comprensione che voglio.
Da qui discende una conseguenza importante per il nostro ragionamento:

“…questa nozione di comunicazione… non include i pensieri dei partecipanti, quindi in linea di principio potrebbe anche coinvolgere partecipanti che non pensano (come gli algoritmi). Il fatto che la comunicazione sia indipendente dal pensiero, tuttavia, non significa che la comunicazione può procedere senza la partecipazione di persone pensanti. Se nessuno ascolta e nessuno partecipa, la comunicazione non ha luogo. La comunicazione richiede partecipanti che pensano; ciononostante non è dipendente o non è fatta dei loro pensieri.”

Dunque un paradosso, che prima o poi emerge come ben sanno gli utenti della rete e dell’AI,  ma che sostiene la possibilità che gli algoritmi, ben lontani dall’essere “intelligenti”, proprio per questo possono dare la sensazione di sostenere la “comunicazione”, come prima definita, la quale però per la mancanza di un interlocutore pensante (che sappiamo benissimo non essere un algoritmo) è “artificiale”.

“Per comunicazione artificiale intendo una comunicazione che coinvolge una entità, l’algoritmo, che non è stato costruito e programmato da qualcuno per agire come una controparte comunicativa. E’ artificiale perché si comunica con il prodotto di qualcuno senza comunicare con la persona che lo ha prodotto.”

Arrivati a questo punto allora:

“La domanda da porsi non è se gli algoritmi sono persone e neanche se sono percepite come persone, ma se nell’interazione con gli algoritmi si presenta una condizione… in cui ogni partner è orientato verso l’indeterminatezza della sua controparte e viene prodotta informazione specifica.”

“… (l’algoritmo) ha una struttura sufficientemente complessa per l’interazione che produce informazione differente da ciò che l’utente già conosce, e l’informazione è attribuita al partner. L’utente comunica con la macchina anche se la macchina non comunica con l’utente.”

E a proposito della presunta intelligenza, ne discende che:

“Nella comunicazione con algoritmi, non ha senso riferirsi alla prospettiva di coloro che hanno immesso i dati perché non potrebbero sapere come verranno utilizzati, e non ha senso riferirsi a cosa intendono gli algoritmi perché non intendono nulla.”

Quali sono allora le opportunità, ma anche le minacce, per l’organizzazione grazie a questa nuova prospettiva sull’Intelligenza Artificiale?

La prima è indubbiamente quella di avvalersi di questa forma di comunicazione ‘artificiale’ per consentire di lavorare meglio. E’ vero che siamo già subissati da informazioni ma ciò che manca è proprio questo artificiale metodo comunicativo che in modo parassitario fa emergere le relazioni ritenute importanti dall’organizzazione stessa. Si fa un gran parlare di data scientist, quelle figure professionali che dovrebbero estrarre grazie agli algoritmi le informazioni essenziali (la verità? dagli enormi flussi di dati disponibili. Il cambio di paradigma qui suggerito è quello di abbandonare questa strada, quella di far diventare intelligenti gli algoritmi, e invece “googlizzare” l’oceano interno di dati affinchè gli algoritmi diventino comunicativi, invece che intelligenti.

Googlizzare è la modalità con la quale Google ha creato il suo successo grazie all’algoritmo Page Rank.
E’ la stessa Esposito che ce lo illustra brevemente:

“…per decidere quali pagine sono importanti PageRank non va a vedere cosa dicono e come lo dicono ma guarda a quanto spesso sono collegate e da chi.“

“Il genio di PageRank consiste nell’aver completamente abbandonato la comprensione di ciò che dice la pagina e affidarsi solamente alla struttura e alle dinamiche di comunicazione.”

“ L’algoritmo è progettato per apprendere e riflettere le scelte fatte dagli utenti. Esso attiva un circolo ricorsivo in cui gli utenti usano l’algoritmo per ottenere l’informazione, la loro ricerca modifica l’algoritmo e l’algoritmo poi incide sulle loro successive ricerche per le informazioni. Ciò che i programmatori definiscono è soltanto l’abilità dell’algoritmo di auto modificarsi (parzialmente N.d.T.). Cosa l’algoritmo seleziona e come, dipende da come gli utenti lo usano.”

Googlizzare il patrimonio di dati interno, invece che far apparire intelligente un algoritmo che se ne alimenta, ha il vantaggio di costruire flussi comunicativi, come il motore di ricerca google fa con i dati della rete, ritenuti rilevanti per l’organizzazione stessa. Dunque non l’immagine del mondo costruita da un piccolo team, data scientist o programmatori per lo più esterni all’organizzazione, ma quella sulla quale vi è accordo all’interno della stessa organizzazione, la vista condivisa e per questo compresa e che crea coesione.

Attenzione però, la comunicazione artificiale può creare l’illusione di una comunicazione reale.

“Gli algoritmi non agiscono come alter ego, e se comunicate con un algoritmo non comunicate con un alter ego. Non osservate come un altro (simile a voi) osserva, osservate attraverso l’algoritmo cosa anche altri possono osservare nella comunicazione”

Guardarsi allo specchio non significa guardare un’altra persona, la comunicazione con gli altri rimane un pilastro fondante di un qualsiasi assetto organizzativo.

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