Necessità e difficoltà dell’innovazione: il caso automotive

19 gennaio 2021

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La velocità dei mercati negli ultimi anni, ci ha dato la possibilità di renderci conto delle loro dinamiche di trasformazione. A fronte di questo fenomeno possono essere tratte alcune considerazioni; spero condivisibili, anche se ancora ignorate o non totalmente assimilate.

La prima è che l’innovazione è ormai un “destino” al quale non si può sfuggire. L’alternativa ad essa è la sempre più stentata sopravvivenza fino all’inevitabile morte aziendale che, a differenza del passato, arriva in tempi molto più rapidi. Per innovazione non si deve però intendere un qualcosa finalizzato alla semplice novità di prodotto o servizio. E nemmeno un inserimento di tecnologie per fare meglio e a minor costo gli stessi prodotti o servizi. L’innovazione è da intendersi relativa alla creazione di un mercato che prima non esisteva, con clienti che non trovano confrontabile la nuova offerta con quella degli attuali concorrenti non per il prezzo o per le funzionalità ma per il significato. Realizzare questa innovazione significa, per le aziende esistenti, dotarsi di una nuova identità.  Da qui in avanti verrà chiamata innovazione profonda.

La seconda considerazione è che la creazione di un nuovo mercato, realizzata grazie alla innovazione profonda, raramente viene effettuata da una grande azienda già presente nel settore. E’ una situazione quasi paradossale: la grande azienda ha tutte le competenze, la presenza e le risorse economiche per stravolgere il mercato in cui opera. Ma, allo stesso tempo, non ha alcun interesse a farlo in quanto ha costruito una struttura interna che produce grandi quantità di profitti, che le ha permesso di dominare quel mercato e che ha un costo elevato di mantenimento. Fare innovazione profonda “per tempo” (cioè prima che lo faccia un nuovo entrante) significherebbe mettere a rischio il flusso di profitti corrente e sostenere gli enormi costi di ristrutturazione interna; il tutto senza alcuna garanzia di successo. Una scommessa che quasi tutti i Ceo, e gli azionisti che ce li hanno messi, non si sentono di sostenere.

La terza considerazione è che il mercato dei capitali, in particolare quella parte che si occupa di finanza aziendale “pediatrica”, cioè del sostegno allo sviluppo delle aziende neo-nate, è dotata di molte risorse ed è molto disponibile a prendersi quei rischi che i ginti del settore temono. I Business Angel, gli Incubatori e i Venture Capitalist, per citare alcuni di questi operatori, investono inizialmente piccole somme su molte startup e aumentano gli eventuali investimenti successivi, se necessari per sostenere il loro sviluppo. Milioni e miliardi di dollari sono disponibili man mano che le attività prendono corpo e incominciano a mostrare segnali di ciò che accadrà se le neo-nate aziende avranno successo: nuovi mercati, tanti clienti, poca concorrenza e, alla fine si spera, enormi profitti. Gli ultimi venti anni hanno dimostrato che, con alterne vicende, grazie a “scommesse” oculate su aziende che creano innovazione profonda, tali situazioni si possono realizzare con maggiore frequenza e, di conseguenza, attirano maggiori capitali.

Un illuminante esempio di tutto questo è contenuto in una recente intervista a Herbert Diess, a capo del colosso Volkswagen da poco più di due anni e mezzo. Il gruppo ha prodotto lo scorso anno più di 8 milioni di veicoli, rispetto ai cinquecentomila di Tesla che è il creatore del nuovo mercato della mobilità elettrica, ma ha una capitalizzazione di borsa di 98 miliardi di dollari, rispetto ai 659 di Tesla. Diess è impegnato in un aggressivo piano di riduzione di costi e ristrutturazione interna che ritiene essenziale per contrastare i nuovi rivali che dispongono di maggiori risorse finanziarie, in particolare Tesla ma anche Apple che ha mire nel mercato della mobilità.

 

“…la nostra valutazione di mercato è ancora come fornitore di ‘old auto’…”

L’articolo ricorda che il gruppo Volkswagen ha accumulato profitti per anni, ma non ha mai pensato di imbarcarsi in una innovazione profonda, come quella della mobilità elettrica, che avrebbe potuto metterlo al posto di Tesla. L’operazione sarebbe stata ad alto rischio, almeno nel breve, ma avrebbe anche reso insostenibile la struttura di costi fissi, come il rallentamento dei ricavi dovuti alla recente pandemia sta evidenziando. Ovviamente la situazione di Volkswagen è condivisa dagli altri colossi del settore, dimostrando la loro difficoltà a realizzare innovazione profonda.

Con l’illusione di poter continuare a fare profitti sempre allo stesso modo, i giganti automotive hanno lasciato spazio ad un nuovo entrante, come Tesla, permettendogli di fare ciò che avrebbero potuto fare loro. Ma Elon Musk, suo fondatore, sapeva bene che “l’impresa” era ad alto rischio e si è avvalso di sostenitori finanziari che si nutrono di questo.

Diess lamenta inoltre una valutazione del gruppo da “old auto”  da parte del mercato finanziario e punta a un market value più in linea con aziende tipo Amazon o Google. Ma è una mera, e ingenua, illusione da parte sua. Innanzitutto perché se anche riuscisse nel suo sforzo di trasformare nel breve Volkswagen in un attore del mercato della mobilità elettrica, sarebbe in ogni caso un follower, un numero due (o tre, o quattro…) che sconterebbe prezzi e profitti più bassi rispetto al leader di quel mercato, dunque con ritorni per gli azionisti inferiori a quelli di Tesla e, di conseguenza, valutazioni inferiori.

Poi, anche se riuscisse ad avere il market value desiderato, difficilmente potrebbe beneficiarne per sostenere la trasformazione industriale. Infatti Tesla, come altre aziende nate da poco, ha una struttura azionaria semplice, votata nella fase di crescita all’investimento e non al suo ritorno. Questo significa che sono disposti a diluirsi (possedere percentuali dell’azienda inferiori con la speranza di un loro maggior valore futuro) nel caso di emissioni di nuove azioni per finanziare la crescita. La struttura azionaria di Volkswagen, come quella di altri colossi, è molto più complessa e orientata, per prassi consolidata negli anni, al ritorno sull’investimento. Dunque sarebbe in ogni caso estremamente difficile per Dess ottenere le risorse che Tesla ha raccolto poco tempo fa, 5 miliardi di dollari, in quanto la vendita di azioni proprie non sarebbe così semplice.

La morale che si può trarre è che la creazione di innovazione profonda in una impresa, la sua trasformazione di identità, è la sua sola via di sopravvivenza a lungo termine. Questa sarà tanto più difficile quanto più sarà “grande” rispetto al suo mercato, consolidata nelle sue modalità industriali (la struttura dei costi fissi) e rigida nella struttura azionaria (compagine complessa e orientata al ritorno e non all’investimento). Ma non vi è scampo: come il caso automotive dimostra prima o poi, e con l’accelerazione delle tecnologie e la disponibilità di capitali attratti dall’alto rischio è più prima che poi, arriverà qualcuno che sconvolgerà il campo, sostenuto da operatori finanziari incentivati dagli enormi ritorni nel caso di successo.
Una lezione per grandi, ma anche piccole, aziende che sono chiamate innanzitutto ad interrogarsi sulla maturità del settore in cui operano e il loro posizionamento di evoluzione strategica rispetto ad esso, chiaramente mostrato dai loro conti economici e finanziari, e successivamente ad agire di conseguenza.

Luciano Martinoli