Molecole versus Vitalismo

1 luglio 2021

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Alcuni anni fa, il compianto professor Del Giudice esordiva in un suo intervento, sulla relazione tra biologia e fisica quantistica, raccontando l’emergere di due scuole di pensiero sul vivente avvenuto nel secolo scorso.

“Tra la fine 800 e inizi del 900 ci fu nel campo della biologia lo scontro tra due partiti: il partito delle molecole e il partito cosiddetto vitalista. La scuola vitalista si concentrava sul fatto che la materia vivente era caratterizzata da un comportamento unitario cioè sostanzialmente non analizzabile in eventi singolari, finché ovviamente rimaneva il carattere vivente. L’analizzabilità in termini singolari molecolari diventava possibile solo dopo la morte dell’organismo in questione. I capiscuola di questa scuola erano in Germania: partono da Weber e Fechner autori tra l’altro di un famoso principio del minimo stimolo che vuol  dire che per avere un grande effetto su un organismo vivente lo stimolo deve essere il più piccolo possibile mentre invece stimoli grandi possono avere effetti spettacolari transitori ma certamente nel lungo periodo sono dannosi per l’organismo.
Il partito delle molecole, invece, vede l’organismo vivente come un insieme di molecole, e nessuno nega che lo sia. Il punto fondamentale però è che ritiene che queste molecole siano isolabili l’una dall’altra. Di conseguenza l’azione su una particolare struttura molecolare ha un effetto, secondo questo approccio, indipendente dalla esistenza delle altre parti dell’organismo, cioè è possibile agire su una parte indipendentemente da tutte le altre.”

Del Giudice aggiunge che questo partito con la seconda guerra mondiale e soprattutto con lo sviluppo dell’industria farmaceutica, ha avuto successo. Uno dei motivi è senz’altro che accogliendo la prima visione si deve intervenire globalmente e in modo continuativo, la filosofia del “principio attivo” invece semplifica l’intervento terapeutico e, da non trascurare, avvantaggia l’industria farmaceutica che, producendo molecole, è ovviamente interessata al successo di questa seconda visione. Naturalmente non si vuole mettere in discussione i risultati raggiunti dalla medicina nel suo complesso, e ritengo che non era nemmeno nelle intenzioni di Del Giudice farlo. Ulteriori progressi però hanno la necessità di accogliere una diversa prospettiva, anche per rimediare ai danni che la prevalenza del partito delle molecole ha generato: dall’abuso di medicinali (ad esempio gli antibiotici) al soverchiante dominio delle case farmaceutiche nell’influenzare la pratica medica

Fatti i debiti cambiamenti di contesto, e accogliendo l’ipotesi che una organizzazione sia dotata di una sua propria autonomia di sviluppo seppur condizionata dall’ambiente in cui opera, ritengo che un fenomeno simile sia avvenuto nell’ambito della teoria organizzativa che, conseguentemente, ha poi ispirato e condizionato la pratica; soprattutto nell’ambito aziendale. Propongo allora di nominare in questo ambito, i corrispettivi dei partiti “vitalista” e “molecolare”  allo stesso modo. Vediamo come di conseguenza si riconoscono considerando che nella prassi quotidiana un equivalente “vitalista” è pressoché assente.

Il comportamento unitario di una organizzazione non solo non viene messo in discussione ma è addirittura ricercato e rappresentato nell’ambito della dimensione economica. Non può esistere, ad esempio, un’azienda che produce bene un prodotto o servizio che però non è capace di venderlo. Oppure, viceversa, che raccoglie ordini in gran quantità che poi non è in grado di esaudirli spedendo i prodotti o erogando i servizi. La produzione di eccellenti economics è sempre il risultato di un buon comportamento unitario di tutta l’organizzazione e non della superiore performance di una sola parte di essa. Questo potrebbe portare a pensare che l’approccio vitalista sia stato accolto. Purtroppo nella pratica vi è un prevalente approccio ad interventi singolari, o molecolari, sull’organizzazione. Il caso estremo è quello della attività di “gestione dei talenti” dalla quale si evince la concezione di un’organizzazione composta esattamente dalla semplice somma di parti (di buona qualità) e non dalla risultante di interazioni dei componenti non analizzabili in eventi singolari.

Anche la spasmodica attenzione alle persone è un altro segnale di questa tendenza. Non vi è dubbio che senza un insieme di persone non può esserci un’organizzazione, alla stregua de l’organismo vivente come un insieme di molecole. Ma pensare che il singolo possa avere effetti sull’organizzazione a prescindere dal contesto nel quale è inserito, è equivalente ad auspicare di avere un effetto indipendente dalla esistenza delle altre parti dell’organismo. Vi è poi da sottolineare la predominanza,  nella scuola delle molecole, dell’attenzione alla dimensione psicologica delle persone. Tale dimensione però  non solo è difficilmente leggibile ma può scatenare effetti indesiderabili se indirizzata in prevalenza (la “cura” dei “bisogni” interiori). Inoltre è da considerare che non è necessariamente gradita da parte del singolo l’intrusione in questa sua sfera intima o, viceversa, può essere utilizzata strumentalmente da lei o lui.

Del tutto ignoto alla scuola delle molecole il principio di Weber e Fechner del minimo stimolo. Infatti ogni intervento “molecolare” si cerca di accompagnarlo sempre  al coinvolgimento del capo, del vertice, del presidente allo scopo di assicurare stimoli grandi che possano avere effetti spettacolari  (peccato però che saranno solo transitori perché certamente nel lungo periodo sono dannosi).

In questo parallelismo vi è posto anche per l’equivalente dell’industria farmaceutica: le grandi società di consulenza. Queste hanno standardizzato la loro offerta molecolare, l’hanno fatta credere indispensabile agli occhi dei “pazienti” (HR manager, CEO, dirigenti, ecc.) e hanno ridicolizzato gli approcci vitalisti costruendo, soprattutto nelle grandi organizzazioni, uno steccato cognitivo che impedisce di far considerare interventi diversi (complici anche degli utilizzatori che, in buona o cattiva fede, non richiedono diversamente).

Per superare lo stallo che si è venuto a creare nel settore, testimoniato dal fatto che si parla sempre delle stesse cose alla ricerca di soluzioni che non si trovano mai, vi è bisogno allora di aprirsi al “vitalismo”. Per farlo bisogna considerare l’organizzazione come un’entità con una sua vita propria, chiedere supporto alle teorie esistenti che si fondano su questo approccio (prima fra tutte la Teoria dei Sistemi Sociali) e partire da presupposti totalmente diversi da quelli del “molecalismo”. Questo primo passaggio di iniziare ad accogliere una idea diversa dell’organizzazione, è indispensabile per realizzare il paradigm shift. Senza di esso infatti qualsiasi proposta verrebbe erroneamente associata alla somministrazione di una “molecola”, con conseguente frustrazione all’insuccesso della terapia.

Ma come, praticamente, riconoscere un’offerta “vitalista” da una “molecolare”?
Semplice, basta verificare che non vi sia la pretesa di un principio attivo che agisca solo su una parte indipendentemente da tutte le altre.

 

Luciano Martinoli