Misurare o somministrare “incertezza”?

di

Luciano Martinoli
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Ogni ingegnere, e meglio ancora ogni fisico, sa esattamente cosa si intende per “misura”. In ambito scientifico infatti misurare significa determinare il valore numerico di una grandezza fisica rapportato ad una unità di misura grazie ad un opportuno strumento di misura. Nell’effettuare la misurazione inoltre bisogna tener conto di un eventuale errore, introdotto dallo strumento, per poterlo correggere. Tutto questo consente di ottenere un importante risultato: a meno di errori introdotti da diversi strumenti, che una volta noti possono essere corretti, ogni misurazione è uguale ad un’altra.

E’ possibile misurare le prestazioni di lavoro di un essere umano con le stesse caratteristiche di una fenomeno fisico? Se ci si limita a grandezze tangibili, certamente sì. Ad esempio si possono misurare le ore in cui un dipendente è rimasto in ufficio, oppure il numero di pacchi spostati in un magazzino, i pezzi costruiti in un ora in una fabbrica, e altro di simile. Chiunque effettui la misura si troverà d’accordo con chiunque altro faccia lo stesso, a patto che usi la stessa unità di misura e lo stesso strumento di misurazione. Ma se vogliamo andare oltre, la misura perde di senso.

A che quantità fisica corrisponde la leadership? E la creatività? Quale è l’unità di misura dell’impegno sul lavoro? E che dire poi degli strumenti con i quali effettuare tali misurazioni che dovrebbero consentire, una volta messici d’accordo su tutto il resto, di realizzare misurazioni “oggettive” che, se ripetute da qualcun altro, dovrebbero portare allo stesso risultato? E’ evidente allora che la misura delle prestazioni lavorative di un dipendente può essere tutto fuorché una reale misura.

Possiamo accontentarci di considerarla una valutazione, un parere soggettivo con tutti i difetti, e pericoli, del caso. Il parere è, per definizione, personale e non sempre condivisibile. E’ condizionato dallo stato d’animo del valutatore (che in questo caso è lo strumento di misura), dai suoi pregiudizi sul valutato, dal rapporto di simpatia o meno che abbia con lei o lui, dal momento specifico della valutazione e dallo stato d’animo di entrambi e altro ancora.c

Insomma tutto fa pensare che la cosiddetta performance evaluation sia una perdita di tempo per tutti e una minaccia per la stabilità dell’organizzazione in quanto ufficializza valutazioni personali, opinabili e variabili, come oggettive e stabili nel tempo, con tutto quel che ne consegue.

Ciononostante una sua funzione può averla, anche se con molti rischi e, per questo , da utilizzare con grande cautela.

Quando nel 1981 Jack Welch divenne CEO della General Electric, all’epoca tra le più grandi aziende americane, si trovò alle prese con un’azienda elefantiaca, lenta nelle decisioni, seduta sui suoi successi e sulle performance eccellenti che poteva contare in tutti i settori in cui operava. Capì che nel caso in cui fosse accaduto qualcosa, qualsiasi cosa, che avesse anche leggermente cambiato il modo di fare business, la sua organizzazione non sarebbe stata preparata a fronteggiarla prontamente. Introdusse allora lo “stack ranking” basato sulla valutazione delle prestazioni: il primo 20% di ogni gruppo aveva diritto a promozioni, premi, bonus, avanzamenti, l’ultimo 10% doveva addirittura essere licenziato.

Lo shock fu grande e impresse all’intera organizzazione una mobilità e un’energia prima sconosciute. Il sistema fu poi abbandonato, anche se si continuò a praticare il performance management con tutti i difetti che poi furono evidenziati (chi ne volesse sapere di più consulti questo link e questo).

Fu data nuova vita all’antico sistema del “bastone e la carota”? Forse, ma vi è qualcosa di più profondo se osserviamo l’intera vicenda dal punto di vista sistemico.

L’organizzazione è un sistema sociale basato sulle decisioni, comunicazioni specifiche dell’organizzazione. Esse hanno la funzione costitutiva del sistema di produrre le differenze che gli consentono di diversificarsi dall’ambiente, di conseguenza tracciare i confini da esso e definire ciò che per il sistema è ambiente. L’ambiente è ricco di incertezze, che ovviamente possono essere sia minacce che opportunità, e non vi è un’oggettività tra le due: saranno le decisioni dell’organizzazione a far sì che diventino l’una o l’altra cosa. Un’organizzazione allora per esistere ha necessità di vivere tra le continue incertezze che la spingeranno a prendere continue decisioni che la costituiranno come tale differenziandosi dall’ambiente.

Un’organizzazione che non percepisce le incertezze dell’ambiente non è spinta a decidere, ovvero dare la forma voluta a se stessa e all’ambiente che la circonda, e dunque è soggetta a rischio di estinzione, a dissolversi nell’ambiente da cui proviene. La valutazione delle prestazioni allora, ben lungi dal poter essere un sistema oggettivo di misura del lavoro, potrebbe, in precise circostanze e per un periodo limitato di tempo, assolvere proprio a questo compito: introdurre nell’organizzazione l’incertezza necessaria a rivitalizzare il suo metabolismo.

Qualcosa di ben diverso allora da un intento di stimolo e, peggio ancora, giudizio sulle “persone”, ma un intervento organizzativo sulle sue operazioni costituenti, alle quali reagiranno certamente i sistemi coscienti delle persone in maniera però imprevedibile.

Da qui la cura e l’attenzione nell’adottare tale misura allo scopo di reintrodurre incertezza organizzativa e l’invito a valutare, per raggiungere lo stesso obiettivo, anche misure differenti. L’organizzazione infatti è un sistema che evolve e si sviluppa in maniera autonoma, è impossibile predeterminare in maniera rigida il suo completo sviluppo, lo si può solo condizionare in certe direttrici e monitorarne gli effetti per provvedere ad aggiustamenti e cambiamenti. La “gestione” dell’organizzazione è mestiere quotidiano e come tutti i mestieri non ha mai fine.