Mandare in pensione la parola “manager”

12 febbraio 2021

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La definizione del manager, il suo profilo e il contenuto professionale, è da tempo in discussione. Un articolo di una newsletter di una importante società di consulenza, suggerisce di mandare in pensione la parola manager perché non più adeguata al contesto organizzativo attuale.

Il suo ruolo infatti una volta era chiaro: l’azienda gli, o le, dava tempo, denaro, persone ed altre risorse affinchè venissero ottimizzate in quanto la direzione complessiva  era chiara e definita da altri. L’unico mandato era fare efficienza. Anche la stessa etimologia ricorda un’ epoca passata quando il management, la cui prima parte deriva dal latino “manus”, era relativo alla gestione e manipolazione di attrezzi e animali perlopiù passivi, o altamente prevedibili, il cui governo era possibile attraverso l’uso, appunto, delle mani.

Ciononostante la cultura manageriale è ancora basata su concetti che hanno perso di senso oggi, come quelli descritti nel secolo scorso da Henri Fayol che riassumeva il ruolo del manager nelle seguenti cinque funzioni: pianificare, organizzare, coordinare, comandare, controllare.

E’ come se il compito principale fosse quello di mantenere le persone all’interno della scatola della loro job description. Ma per la complessità e dinamicità dei contesti in cui si muovono le aziende, ma anche le organizzazioni pubbliche, non esiste oggi mansionario che possa descrivere i compiti da effettuare per far svolgere un qualsiasi lavoro. Le persone devono essere libere di trovare dentro l’organizzazione le risorse e ulteriori persone che possano aiutarle a farlo. Per questo nessuno vuole essere più “gestito” (managed).

Ma c’è un problema anche per chi è chiamato ad essere manager. I compiti istituzionali, i cinque descritti prima, appaiono sempre di più come armi spuntate per combattere la complessità interna ed esterna al proprio gruppo. 

Anche i manager non vogliono più “gestire” in quel senso ma occuparsi di guida, di comprendere come consentire al proprio team di esprimere il meglio che può, creare le condizioni organizzative favorevoli a tale scopo.

In un altro articolo del Wall Street Journal si ricorda come tanti compiti, soprattutto quelli di controllo, siano ormai stati automatizzati (ad esempio le note spese). Inoltre in virtù del ridimensionamento avvenuto in molte organizzazioni, i “capi” hanno molti più riporti. Questo non consente più di esercitare un controllo o una guida sui contenuti tecnici del lavoro, caratteristica per la quale molto spesso sono stati promossi a tale ufficio. Non serve più che “insegnino” agli altri ma devono avere conoscenze sociali  per aiutare le proprie persone, e il team in generale, a muoversi all’interno dell’intera organizzazione in tutta la sua ampiezza, a relazionarsi nel migliore dei modi con l’ambiente sia interno che esterno ai confini aziendali.

Insomma appare oramai chiaro ed evidente che il ruolo del manager, a partire dalla parola, deve cambiare perché è cambiato il sistema (il suo team) con il quale è chiamato ad avere a che fare. Ma se questo è vero, perché prima di parlare delle caratteristiche di questa nuova figura, in termini di leadership, capacità di motivazioni, di comunicazioni, eccetera, non si chiarisce prima la nuova natura dell’organizzazione?

Usando una metafora per alcuni versi inappropriata, perché soffermarsi e indagare sulle caratteristiche di un pilota prima di conoscere e comprendere cosa debba pilotare: un aereo, una moto, una carriola, un cavallo?  

Luciano Martinoli