Le persone sono una cosa, l’organizzazione un’altra

di

Luciano Martinoli
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18 gennaio 2020

Le persone hanno una loro sfera fisica, il metabolismo interno del corpo, e psichica, l’insieme dei pensieri, sentimenti e percezioni che scaturiscono e alimentano l’attività mentale. Questi due domini sono distinti, anche se si perturbano a vicenda, imperscrutabili dal punto di vista delle loro operazioni interne, sempre in continua modificazione per mantenerne la struttura coerente con il mondo circostante. Per questo motivo non possono essere “controllate” dall’esterno. Ognuno di noi ha sperimentato questa chiusura operativa: un malessere fisico non può essere messo sotto controllo dalla nostra volontà di interferire nelle operazioni del nostro corpo. Analogamente non siamo in grado di modificare uno stato d’animo negativo agendo d’imperio su ciò che stiamo sentendo in quel momento. Ciononostante però, come detto prima, queste due dimensioni distinte nelle loro operazioni specifiche (un pensiero non “respira” e un polmone non può essere “triste”) si possono influenzare tra di loro perturbandosi (uno stress può causare danni biologici, essere in buona salute genera sentimenti e sensazioni positive).

Vi è una terza dimensione che ha le stesse caratteristiche di chiusura operativa, ha sue operazioni specifiche che si generano e rigenerano da sole, e di possibilità di essere perturbata dalle altre, essendo in accoppiamento strutturale con esse: quella sociale. Facciamo parte del sistema sociale economico, come acquirenti o venditori di beni e servizi, di quello politico, partecipando a votazioni o all’attività di partiti, eventualmente di quello giuridico, rivolgendoci ad un tribunale per chiedere conto di un danno o difendendoci da un’accusa, e di molti altri ancora. Partecipiamo però anche a sistemi sociali di dimensioni più ridotte, come quello familiare o di una cerchia di amici. Nel caso dei sistemi organizzativi aziendali la specificità delle loro operazioni interne, basate sulle “decisioni”, possono essere certamente perturbate dagli stati fisici (malattie) e psichici (preoccupazioni derivanti da problemi “sociali” derivanti da altri sistemi ai quali le persone partecipano), ma non sostituita da essi.

 Un’organizzazione non può andare avanti con operazioni basate sui sentimenti dei singoli, né con la loro circolazione sanguigna.

Una evidenza di questo fatto apparentemente banale, la cui consapevolezza si perde spessissimo nella retorica e nella pratica quotidiana della gestione delle organizzazioni, ci viene mostrata da una recente ricerca apparsa sulla rivista Harvard Business Review. Essa illustra una circostanza abbastanza comune nelle aziende: un dipendente che si rivolge al suo responsabile per chiedere aiuto o consiglio su problemi personali.
Considerando tutto il tempo che spendiamo stando al lavoro”, recita l’articolo, “non deve sorprendere che i dipendenti condividano occasionalmente problemi personali con i loro responsabili. E le persone tendono ad approcciare i capi più spesso che i colleghi perché molti ritengono che sia una loro responsabilità dargli supporto sui problemi emotivi al lavoro.”

Dal punto di vista sistemico, per quanto detto prima riguardo la chiusura operativa e l’accoppiamento strutturale tra i domini psichici personali e sociali organizzativi, siamo di fronte ad un ineludibile perturbazione del primo sul secondo che non può essere evitato. La ricerca condotta però aveva come obiettivo una domanda precisa: “la risposta a queste richieste come influenza l’umore e le prestazioni al lavoro dei responsabili (e dunque le operazioni delle organizzazioni N.d.t.)?

I risultati non sono sorprendenti: le negatività sono contagiose e abbattono anche chi semplicemente le ascolta. Questo a sua volta influisce sulle capacità di un manager nel gestire le problematiche relative al lavoro e al supporto in questo ambito che sono chiamati a dare agli altri membri dell’organizzazione. Ovviamente manager più senior hanno maggiore esperienza nel trattare questi casi e sanno come minimizzare l’influenza che possono avere su loro stessi.
Secondo gli autori della ricerca però, ad uno sguardo più approfondito, i dipendenti non sembrano valutare il supporto dei loro leader ai problemi personali così come quello dato ai problemi di lavoro. Infatti “laddove l’aiuto fornito sui problemi di lavoro migliorava il rating dei dipendenti dell’impegno al lavoro dei loro leader, il supporto ai problemi personali no”.

Per quanto detto all’inizio, evitando giudizi di merito che coinvolgerebbero opinioni nella sfera morale, siamo di fronte all’evidenza della separazione dei due domini, quello psichico-personale e quello sociale-organizzativo, di cui gli stessi dipendenti evidentemente sono ben consci. Tale separazione dal punto di vista delle “operazioni” però non impedisce l’uno di perturbare l’altro con effetti negativi sull’aspetto organizzativo. Ciò non significa che non si possa prestare aiuto ad una persona che ne esprima il bisogno, ma bisogna avere chiaro che stiamo facendo operazioni diverse che nulla c’entrano per ciò per cui siamo pagati in azienda. A noi che prestiamo soccorso, e a chi lo chiede, la sensibilità di ingaggiare queste relazioni, ben consapevoli di quanto comportano e avendo ben chiaro che nulla hanno a che fare con le dinamiche organizzative. Ancora una volta ci si domanda allora quanto abbia senso ancora parlare in azienda di “risorse umane”, che non le appartengono e le cui operazioni fisiche e psichiche sfuggono al suo controllo, al posto di “risorse sociali” che sono di esclusiva proprietà.