La “carriera” è la migliore modalità di integrazione organizzativa.

12 ottobre 2020

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La carriera viene comunemente intesa come un percorso predefinito di posizioni all’interno di un’organizzazione o, più in generale, in uno specifico ambito della società: economia, mondo accademico, artistico e così via. Si è portati a pensare che l’orientamento alla carriera, perseguito dai singoli, sia una minaccia alla coesione dei gruppi in quanto potrebbe portare l’individuo a far prevalere il proprio interesse rispetto a quello degli altri o quelli della comunità di appartenenza. Se però cambiamo la prospettiva e osserviamo la carriera dal punto di vista organizzativo, essa ha mostrato finora una notevole capacità di soddisfare un importante funzione: l’integrazione dei membri con l’organizzazione.

In genere si ritiene che la miglior “colla” tra i componenti dell’organizzazione ed essa stessa siano i princìpi, soprattutto ideali ma anche semplici scopi. Purtroppo essi soffrono spesso il confronto con la realtà: nella prassi si rivelano inconsistenti o diventano velocemente obsoleti richiedendo un loro rimpiazzo che, a lungo andare, rende il rimpiazzo stesso poco credibile. E’ la storia, ad esempio, dei partiti politici che sorsero sulla base di ideologie, qualsiasi esse fossero, alle quali hanno dovuto rinunciare per l’impossibilità di realizzarle a causa di un contesto storico profondamente mutato. Anche nel mondo delle organizzazioni economiche accade qualcosa di analogo. Basti pensare alle mission di colossi come Google (“La nostra missione è organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili”) o Facebook (“Creare comunità e unire il mondo”) oggi accusate addirittura di minacce contro la democrazia e di renderci schiavi dei loro servizi per i loro scopi economici. Davanti a tali contraddizioni, quale dipendente di uno dei colossi si sentirebbe “legato” all’azienda per la sua mission?

Con questo non si vuole sentenziare una totale inutilità di questa dimensione ideologica, ma solo confinarla nell’ambito delle coscienze e della sfera psichica dei singoli, estranea dunque a quella meramente organizzativa. Detto in altri termini, anche se può apparire paradossale,  le idee e gli scopi servono alle persone non alle organizzazioni.

Possiamo allora dire che la carriera appare come un momento stabile che permette, agli individui come alle organizzazioni, di sopportare e utilizzare gli aspetti contingenti delle decisioni organizzative. Grazie alla carriera si può allora presupporre la flessibilità delle persone, le quali non si identificano, o non completamente, con idee o scopi ma soltanto con la loro carriera. Cioè si può contare su persone che sopravvivono a tutti i possibili cambiamenti solo in quanto membri di organizzazioni e null’altro. In questo caso l’identificazione delle persone con progetti, scopi o altro si traduce in una operazione di ascrizione che ha il solo scopo di agevolarle, o escluderle, nella loro carriera.

 

 

Grazie alla carriera si può presupporre la flessibilità delle persone, le quali non si identificano, o non completamente, con idee o scopi ma soltanto con la loro carriera.

Non si può però ridurre il concetto di carriera alla mera ambizione di progredire o arrampicarsi socialmente. Alcune carriere portano in basso oppure si arrestano e si può anche esser contenti di questo. Quello che è inevitabile è il fatto che vi sono gradualità, di conseguenza un’esperienza temporale che, tanto nel passato quanto nel futuro, fissa possibilità migliori o peggiori.

Un’ulteriore aspetto della carriera è che il suo perseguimento è aperto sia all’intervento del singolo che a quello del contesto in cui vuole ottenerlo. Si deve esprimere un proprio interesse o meno comunicandolo, ma questo non è sufficiente per fare carriera in quanto tale interesse deve essere recepito dall’ambiente in cui si vuol progredire. Il concorso di questi due aspetti, del singolo e dell’ambiente, rende impossibile prevedere o calcolare una carriera, ma ciò rende il suo perseguimento più interessante e assolve ancor di più la sua funzione integrativa. E’ l’incertezza della carriera che la rende degna di essere considerata e appassiona i singoli nel cercare di realizzarla.

La carriera infine ha bisogno di una simbolizzazione pubblica: con espressioni comprensibili agli altri si deve poter dire chi si è e fino a che punto si è arrivati citando gli esami superati, le posizioni raggiunte, i titoli conseguiti eccetera. Ma anche dando segnali come il livello di reddito o la frequenza con cui il nome compare sui mass media o nel pettegolezzo. Solo attraverso questo plusvalore la carriera dà un contributo allo sviluppo di sé, al rafforzamento di un’identità che si può esibire anche agli estranei. Questo significa non soltanto che le carriere possono essere inventate, ma che presuppongono una istituzionalizzazione sociale.   

La prova di quanto il meccanismo carrieristico sia efficace e quanto sia addirittura quasi una necessità per i singoli,  è data dall’enorme diffusione e utilizzo dei social media. Da questo punto di vista infatti essi non sono altro che luoghi pubblici dove, proprio perché tali, è possibile istituzionalizzare la propria costruzione di identità. Cosa altro sono infatti i likes su Facebook, le visioni su Youtube o i pallini di Tripadvisor se non possibilità di costruire carriere comunicabili agli altri?

Dunque la vecchia carriera ha una funzione sociale importante per l’organizzazione, ma anche fondamentale per l’autostima e la costruzione dell’identità dell’individuo. Una strada maestra, antica ma efficace,  per tutte le aziende che cercano disperatamente di ottenere attaccamento e fedeltà organizzativa; oggi ancor più praticabile con l’uso dei social media.

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