Contro la “comunità di eremiti”

6 giugno 2020

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Si stanno moltiplicando, in questo periodo di ripartenza, i seminari e le conferenze on line che desiderano fare il punto della situazione sulla esperienza di lavoro remoto e smart working imposte dalla pandemia.

Di sicuro l’evento eccezionale ha sdoganato una modalità  di lavoro che era già in uso presso le organizzazioni private, soprattutto grandi e di stampo anglosassone, e molto meno per quelle nostrane e pubbliche. Durante questi eventi si parla di tecnologia abilitante, dei benefici che ha apportato in termini di continuità lavorativa e di flessibilità per le persone, così come pure delle inevitabili problematiche connesse (difficoltà a gestire la commistione tra sfera familiare e lavorativa, la continua disponibilità, e altro ancora).

Il bilancio però, agli occhi di tutti, appare tutto sommato positivo e vi è l’intenzione da parte di molte organizzazioni, sia pubbliche che private, a integrarla ormai come pratica operativa standard che nel tempo cambierà non poco sia la logistica dei luoghi di lavoro che anche gli stessi assetti organizzativi.

Il nocciolo del tema però, a mio avviso, viene ancora trascurato ed è quello che tocca la natura profonda dell’organizzazione e non solo il lavoro che svolgono i singoli. Vi sono tante attività che possono essere svolte senza far parte di un’organizzazione, così come vi sono tante attività che possono essere fatte senza aver bisogno di essa pur facendone parte. Il dibattito e le valutazioni allora si sono appiattite sulla logistica delle modalità di lavoro singolare e di come questa possa essere cambiata ma senza affrontare la dimensione organizzativa.

In un recente webinar un noto professore di economia, docente in una titolatissima università italiana, ha presentato i risultati di una sua ricerca in merito alla possibilità di rendere agile il lavoro e dello stato dell’arte attuale per mansioni e geografia. Il professore ha avuto l’unico merito di esporsi in una definizione chiara di potenzialità di smart working: a partire dalla definizione di un mansionario, interrogare i partecipanti su se e come ogni singola attività potesse essere “remotizzabile” . Se la totalità, o anche la maggioranza, di esse corrisponde a tale caratteristica allora si può fare smart working.

Sorprende la banalità, oltre che l’obsolescenza, dell’approccio che strapperebbe un sorriso, se non una fragorosa risata, a qualsiasi manager o direttore del personale di una certa esperienza. Mansionari e procedure hanno sì una loro funzione, che è quella di dare forma e direzione all’organizzazione, ma al tempo stesso appena definiti, al contatto con la realtà, diventano subito ambigue e tale ambiguità va risolta.

La risoluzione può essere determinata dal singolo ma, molto più spesso, è più efficace, se non necessario, un confronto attraverso l’interazione con altri, colleghi o superiori che siano. L’intensità di tale interazione dipende dalla complessità dell’ambiguità da risolvere. Nei casi più semplici può bastare un messaggio scritto: una nota su un pezzo di carta, un email, una chat. 

Man mano che la complessità aumenta l’interazione necessità di maggiore intensità: bisogna parlarsi, vedersi e in alcuni casi estremi addirittura toccarsi.

Ad ambiguità risolta ne emergerà un’altra e poi un’altra ancora perché il mondo circostante è sempre in continua ebollizione di novità da considerare attentamente (e mai come oggi lo stiamo toccando con mano). Questo ribollire forza la comunicazione organizzativa ad emergere e perdurare nel tempo e la rete di tali comunicazioni costituisce l’organizzazione.

Le tecnologie disponibili hanno offerto dei validi supporti per allargare e potenziare i supporti comunicativi. Fino alla metà degli anni ’80 del secolo scorso si usavano delle note scritte a mano per comunicare tra colleghi di uffici diversi, nello stesso edificio o in città diverse. La posta elettronica ha sostituito questa modalità rendendo il messaggio scritto più immediato. I colloqui vocali sono stati via via estesi grazie alla telefonia fissa, mobile e poi con i sistemi di istant messaging. Ulteriori passi avanti sono stati fatti con le video chiamate, i sistemi di teleconferenza, i software per web meeting e altro ancora che stanno impazzando su rete in queste settimane.

La modalità comunicativa più intensa però è quella dal vivo, in presenza dell’interlocutore, in quanto permette di far emergere la comunicazione più forte ed efficace che ci sia: la percezione del comportamento. Chiunque sia stato mai a teatro o ad un concerto può comprendere l’enorme differenza tra quella esperienza e l’assistere allo stesso evento in TV o ascoltando una registrazione. La nostra psiche è incarnata nel nostro corpo in modo indissolubile e l’unico modo che ha per entrare in contatto col mondo che ci circonda è attraverso i nostri sensi (con le limitazioni fisiche che questi ci impongono: spettro frequenze elettromagnetiche per la vista, spettro di frequenze acustiche per l’udito, numero e quantità particelle solubili per l’olfatto eccetera).

Ogni tecnologia sensoriale amplia il raggio di azione di un senso, non lo sostituisce, ma il prezzo da pagare è perdere lo spessore della modalità della comunicazione. Chiedete ad un amico di scrivervi qualcosa via email o chat e poi di riscrivere lo stesso messaggio con carta e penna; confrontate poi i due testi. Anche se non siete esperti di grafologia noterete subito la differenza in termini di ricchezza che lo scritto a mano vi da. E’ facile immaginare la stessa differenza tra un meeting dal vivo e uno via rete.

La percezione del comportamento altrui, così come la comunicazione che attiviamo attraverso il nostro comportamento, è inoltre fondamentale per comunicare reciprocamente un senso di appartenenza comune ad un’organizzazione. La pienezza dell’interazione fisica è l’unica modalità che consente la realizzazione di questo. E’ esattamente il motivo per il quale i credenti di qualsiasi confessione frequentano i luoghi di culto e non si limitano alle preghiere solitarie, i tifosi di una squadra sportiva vanno allo stadio e non si accontentano di sostenere la propria squadra in TV, gli attivisti di una causa, politica o meno, partecipano intensamente alle manifestazioni del movimento oltre a sostenerlo economicamente con donazioni. E’ solo la presenza fisica attraverso le interazioni che consente ai criteri forti di appartenenza ad una organizzazione di emergere e prendere corpo; tutto il resto è un suppletivo logistico a specifiche necessità di mansione.

E poichè le persone, in particolare la loro dimensione psicologica, fanno da ambiente all’organizzazione, e dunque alla rete di comunicazioni che la costituisce, tutto questo determina non poco la sua forma, la sua possibilità di sviluppo e, in ultima analisi, la sua stessa esistenza.

In conclusione le organizzazioni di qualsiasi tipo dovrebbero valutare con grande cautela l’introduzione di forme di lavoro che limitino troppo le interazioni fisiche. Bisogna determinare in modo specifico (caso per caso) sia le necessità di risoluzione di ambiguità forti (assorbimento incertezza), che richiedono maggiormente la presenza, sia le necessità  derivanti dal mantenimento dei criteri di appartenenza all’organizzazione.

Il rischio, in assenza di queste cautele, è creare una “comunità di eremiti”, ossimoro linguistico e paradosso organizzativo.

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5 risposte

  1. Buona giornata ..
    Allego un mio posto di due mesi da su LinkedIn.
    Qualcuno si è accorto del pericolo che incombe in questo mondo? Dove è raro il valore della realtà e dell’esperienza che se ne può fare nel condividerla, in quanto ne appare solo la sua rappresentazione stereotipata, seppur apparentemente perfetta e neutrale nella versione che ci viene comunicata?
    Non prendiamo più parte alla realtà ma ne consumiamo la sua immagine.
    Diventeremo una moltitudine di “eremiti di massa” localizzati in loculi collegati da una fibra ottica super veloce, in oceaniche solitudini senza più il senso di un comune essere.
    Siamo troppo spesso “accanto” all’altro e non “con l’altro”, figlio, amico, marito, collega, collegati con qualche decina, centinaia o migliaia di altri solitari via WEB che “contemporaneamente” ma mai “insieme” condividono uno schermo colorato.
    Non si può certo rimanere in disparte, ma non si può smettere di opporsi, rimanendo “con e per” rapporti ed esperienze reali, soccombendo a questa zuccherosa schiavitù, che degradando le individualità e livellando le soggettività, ci porta a perdere il senso ultimo del vivere.
    Il fantasma virus nel mondo.
    Urge ripercorrere strade e sentieri della realtà come viandanti capaci di esplorare il mondo delle “cose” e non le cose del mondo, pena una sedentarietà che al mondo piace perché non lo percorre e di fatto nemmeno lo abita.
    Quando impattiamo la realtà del mondo solo come “immagini trasmesse e contemporaneamente osservate” ciò che accade è la visione del fantasma del mondo e cosa possiamo dire, fare, capire, conoscere di un fantasma che saltella in ogni spicchio gravido del nulla.
    Ridotti a “ guardoni” senza più i … gli attributi.
    Relegati a non avere diritto all’esercizio dell’interpretazione, del pensare, costretti alla simultaneità continua senza respiro, che avvicinandoci il lontano ci allontana da chi ci è vicino.
    Il nesso tra le cose della realtà è la qualità del progresso vero.
    Questo è il compito che rende nobile ogni sforzo per la conoscenza.
    Sarà complicato ma certo utile per non lasciarci livellare da facili e speculative opinioni senza un amore per una rinascita che tutti desideriamo.
    Meglio avere profonde ferite e sangue gocciolante dalle mani piuttosto che servirsi dell’acqua di Ponzio Pilato.

  2. Complimenti per il titolo, Luciano.
    “Comunità di eremiti” rende perfettamente il flebile legame che si instaura tra i soggetti coinvolti nello smart working.
    L’ossimoro, che forse potrebbe completare il tuo è “illustri sconosciuti”: senza l’interazione fisica, la naturale conoscenza potrebbe essere affetta da molti più bias del normale perciò risultare più superficiale.
    Manca il feedback, quella comprensione di cui parlavi nel seminario che ho seguito recentemente.

    Dario

  3. Mi stupisco che possano ancora sussistere approcci deterministico/tayloristici alle organizzazioni umane, come quello del docente citato nell’articolo. E preferisco non sapere il nome dell’Università. Detto questo, propongo anche una differente chiave di lettura.
    Le Aziende – alcune Aziende – mi sembrano molto più avanti di quel docente. Sono consapevoli intanto che non stanno facendo smart working ma remote working in un periodo di emergenza. Contemporaneamente sono anche consapevoli – alcune – che questa situazione emergenziale cambierà necessariamente dei comportamenti, perché i motivi che hanno causato l’impatto del Covid non sono rimossi. Per cui occorrerà attuare un nuovo modello. Che non voglio neanche chiamare “misto” di lavoro on site e remoto, perché si ricadrebbe nella contrapposizione fra due modi. E’ un nuovo modello in cui si avrà interazione sia fisica che virtuale a seconda dei momenti e delle situazioni. E che comporterà revisioni del sistema gestione, controllo, delega e anche contrattuale. In altre parole un ecosistema diverso con una sua nuova dignità.
    Ulteriormente, non dimenticherei che mentre si perde una parte di contatto fisico nel mondo del lavoro, lo si guadagna nella vita personale (quando questo non è un problema, ovviamente ci sono situazioni patologiche nelle famiglie). Si può anche pensare (mia personalissima idea) che alcune aziende che si stanno attrezzando con un numero minore di postazioni, utilizzino dei co-working vicino alle residenze di chi non ha posto a casa per collocare gli operatori per il tempo che non sono in azienda; si sviluppano interazioni differenti. Quindi nuovo ecosistema con nuovi equilibri. Penso all’introduzione del divorzio in Italia: i primi figli del divorzio (e delle separazioni) avevano problemi e venivano “additati”. Oggi è una condizione normale.
    Faccio poi una considerazione di ordine più generale, che deriva dalle mie conoscenze su decarbonizzazione e sostenibilità: le ragioni dell’impatto del covid dipendono dal rapporto uomo – natura e non sono annullabili nel breve. Manca la volontà in alcune parti del mondo e a volte anche la possibilità. Occorreranno una trentina di anni. Il distanziamento per periodi più o meno lunghi di tempo potrebbe diventare una modalità di gestione corrente. O quantomeno verrà considerato un o strumento da tenere pronto, un po’ come l’interrompibilità dell’energia elettrica per prevenire down critici di rete. Aggiungiamo che l’eccesso di spostamenti su percorsi brevi è dannoso in termini di eissioni e consumi energetici nelle macro-aree urbane. In altre parole, tutto congiura per un cambiamento di modello, in cui l’attività lavorativa a distanza sarà una componente percentualmente crescente nei prossimi anni. Quindi credo che l’attenzione vada posta sulle criticità, ma per studiare uno o più modelli che evolvano la nostra capacità di relazione in modi più articolati, più che per averne timore. Ovviamente, come in tutto, il diavolo è nei dettagli, ma soprattutto, il diavolo si inserisce nelle transizioni, che possono causare morti e feriti, prima che si raggiunga un nuovo stato sufficientemente in equilibrio. (Nel percorso verso la decarbonizzazione ce ne sono, molti).
    Lancio uno stimolo: la tecnologia è uno strumento a servizio dell’uomo, o è una componente dell’uomo, che via via diventerà integrata nell’uomo stesso, contribuendo a cambiandolo?

    1. La ringrazio del lungo e articolato commento.
      Il nome del professore e dell’università non è un mistero, visto che l’evento era pubblico. Sto aspettando la pubblicazione della registrazione ma se volesse “scoprirlo” può visionare la pagina che pubblicizzava l’evento e i suoi relatori https://www.theinnovationgroup.it/events/smart-working-tecnologie-organizzazione-risorse-umane/?type=0&lang=it

      A mio avviso però “l’incidente” del professore è la classica dimostrazione dei marchiani errori che si possono commettere volendo utilizzare una conoscenza, in questo caso economica, inadeguata ad affrontare la profondità di un fenomeno, questa volta la dimensione sociale dell’organizzazione. L’errore è stato quello di banalizzare l’organizzazione per farla rientrare nel trattamento possibile agli strumenti economici. E’ come voler riparare il guasto di un auto con conoscenze della chimica, in qualche modo c’entrerà pure ma… i risultati saranno molto discutibili.

      Sono totalmente d’accordo con le sue considerazioni e in particolare sul fatto che il rapporto uomo-natura è alla base di tanti disastri che ci affliggono, compreso l’ultimo (ma è consapevolezza anche del mondo scientifico). Più che di volontà però parlerei di “risorse cognitive” mancanti, incapacità nell’elaborare le connessioni che il mondo ci presenta e reagire di conseguenza. Anche qui condivido che ci vorrà del tempo.

      A proposito dello stimolo che ha voluto lanciare, proporrei di esplicitarlo in maniera diversa. Faccio prima qualche premessa. La tecnologia una volta che diventa disponibile alle interazioni sociali diventa un sistema sociale. L’uomo è un essere biologico e psichico, non c’entra nulla con la tecnologia. La sua partecipazione ai sistemi sociali, tecnologia compresa, è cosa diversa. Allora da questa prospettiva parliamo di interazioni tra sistemi sociali che certamente si influenzano e tali influenze modificano nel tempo le loro strutture. Di conseguenza anche l’uomo stesso, nella sua componente psico-fisica, ne viene affetto e viene modificata la sua traiettoria evolutiva.