Conglomerata: strumento o mezzo per realizzare una Strategia?
18 novembre 2021
Un recente articolo del Wall Street Journal ha riportato e commentato la seguente vicenda:
“Le nostre impressioni sul declino e la caduta delle aziende sono distorte da cadute improvvise come quelle di Enron nel 2001, Lehman Brothers nel 2008 o Theranos nel 2018. Tali implosioni spettacolari fanno sembrare che le aziende passino dalla gloria al fallimento in un batter d’occhio.
La dissoluzione di GE, però, indica un’altra realtà della vita e della morte aziendale. Spesso, il fallimento, come scrisse Ernest Hemingway in ‘The Sun Also Rises’, avviene in due modi: ‘gradualmente e poi improvvisamente’.”
Vedo in queste affermazioni la convinzione che l’azienda sia fatta di strutture con una loro robusta consistenza in grado di eseguire le attività d’impresa. Da qui discende la sorpresa del loro repentino crollo, preceduto da lento, a volte “impercettibile” declino: come è possibile che strutture così massicce a un tratto crollino rovininosamente? Una spiegazione plausibile è che sia vero l’esatto contrario di ciò che si crede, ovvero che l’azienda sia fatta di continue attività volatili che devono essere continuamente rimpiazzate: fatta una vendita ne va fatta un’altra, costruito un prodotto va costruito il successivo, fatto un bilancio va fatto quello seguente e così via. Interromperle significa morire. Le strutture servono ad eseguire tutto questo, sono al servizio delle operazioni non il contrario. Volendo fare un parallelo biologico, un ventenne grande e grosso, che ha costruito la sua imponente struttura in un processo di crescita di un paio di decenni, può morire nel giro di brevissimo tempo se non respira per più di trenta secondi, se il cuore non pompa sangue per una manciata di minuti, se non mangia per un mese e così via. C’è da meravigliarsi di questo solo se pensiamo che il suo “essere” biologico sia quel “grande e grosso” che ci appare, non che sia invece costituito dalle numerose attività che esegue. L’essenza dell’azienda è l’insieme di processi che esegue costantemente, non tutto il resto pur necessario (persone, fabbriche, uffici, macchinari eccetera) che serve ad eseguirle.
“I cicli economici e di business sono spesso più importanti per un’azienda di quello che fanno i suoi manager. … Dagli anni ’40 agli anni ’70, le conglomerate sono cresciute fino a diventare di gran moda. Holding come la International Telephone & Telegraph e Gulf & Western Industries raggrupparono dozzine di imprese nella convinzione che l’intero sia più grande della somma delle sue parti. La ITT rese popolare l’idea che centinaia di manager d’élite nella sede centrale di una conglomerata fornissero competenze su contabilità, spedizioni, assunzioni, brevetti, controllo dell’inventario, ricerca e sviluppo. Poi, negli anni ’70, gli investitori smisero di acquistare titoli delle conglomerate; la ITT e le sue colleghe iniziarono ad andare in panne. La diversificazione era finita. La specializzazione in una manciata di core business era arrivata. Molte conglomerate si spezzarono per sbloccare il valore che era stato oscurato dal mettere insieme business disparati.”
Nella prima frase viene sottolineata l’importanza dell’idea dell’azienda come “sistema” che è tale rispetto al suo “ambiente”, caratterizzato da continue evoluzioni autonome (i cicli). Il sistema-azienda dunque deve sempre considerare l’ambiente-business nel quale opera, ed adeguarcisi di continuo. L’ottimizzazione delle operazioni interne indipendentemente da questo rapporto sistema-ambiente, è ciò che ha creato i problemi alle conglomerate. Quello che però l’autore dell’articolo dimentica, è che il sistema col suo operare può contribuire a modificare l’ambiente; dunque non è esclusivamente un attore condannato a subire passivamente i suoi capricci. Se lo vuole, e ne è capace, può creare dal nulla nuovi “ambienti” (mercati) a sua misura (ma anche a beneficio di altri “sistemi”: concorrenti, clienti, fornitori, eccetera). E’ ciò che è successo nel caso di Amazon, Apple, ed altri ancora che con il loro operare hanno creato mercati prima inesistenti, o li hanno modificati al punto da renderli irriconoscibili. E lo hanno fatto creando proprio delle conglomerate. Cosa c’entra infatti un servizio di e-commerce con uno di servizi web aperto al pubblico e di streaming di film di Amazon? E la costruzione di PC, smartphone, orologi, un servizio di download di app a pagamento e l’interesse per costruire auto a guida autonoma di Apple? Apparentemente nulla.
“Molto deve essere disimparato se si deve segnare un nuovo inizio”
Ma sono tutte attività che realizzano una Strategia di creazione di significato che è cosa ben diversa, e di maggior valore, di una di Efficienza Operativa o Efficacia Operazionale che volevano ottenere le conglomerate degli anni ’70. Qui emerge un altro mito infondato, basato sulle errate convinzioni di cosa sia l’azienda: l’assetto societario, così come quello organizzativo, sono a supporto di una direzione (la Strategia) che l’azienda vuole percorrere con le sue operazioni, non una sua “essenza”; in altre parole non definiscono chi sia. Di conseguenza la conglomerata è strumento di realizzazione di una Strategia; negli anni ’70 ha funzionato per un po’ per ricercare efficacia ed efficienza, poi si è esaurita. Amazon e Apple hanno adottato lo stesso modello per realizzare nuovi mercati, e sta funzionando (per il momento).
“Come la ITT e i conglomerati precedenti, la GE era orgogliosa della sua rigorosa formazione dei manager. Nel 1956, ha stabilito un “istituto di leadership” nella Hudson Valley di New York Valley dove migliaia di dirigenti si sono immersi nelle tecniche per migliorare le operazioni e la strategia di GE. I giovani astri nascenti hanno ruotato da un business all’altro e attraverso le sedi in tutto il mondo. All’inizio degli anni 2000, l’azienda spendeva 1 miliardo di dollari all’anno in formazione. Non molti problemi sembravano troppo difficili da risolvere. ‘Possiamo sederci intorno a un tavolo su qualsiasi questioni e dire ‘cosa ne pensate?’ e arrivare a una ‘risposta giusta’ sulla maggior parte di quelle importanti’, scrisse l’allora amministratore delegato Jeff Immelt nel rapporto annuale 2001 di GE 2001 di GE.”
Che la formazione sia necessaria per tutta l’organizzazione, non solo per i manager, non vi è dubbio. Il dubbio sorgerebbe andando a vedere cosa si intende per “formazione”: fornire strumenti con i quali trattare problemi o “vocabolari” con i quali descrivere nuovi mondi e progettare nuovi strumenti per costruirli? Dalla battuta di Immelt sembrerebbe più la prima che la seconda. La “risposta giusta” è tale rispetto ad una domanda e al bagaglio di convinzioni, o pregiudizi, nascosti o palesi che si porta dietro. Quanto questa mia ipotesi possa essere fondata, è dimostrato dalla seguente successiva affermazione nell’articolo:
“Nessuna tecnologia di management può cancellare decenni di cattive decisioni o reagire a cambiamenti irreversibili a come viene condotto il business”.
Dunque in questi casi bisogna essere capaci non di fornire “risposte giuste” ma formulare “domande nuove” e avere la capacità di fornire ad esse “risposte coraggiose”; ben consci che saranno, in futuro non adesso, giuste solo quando si agirà affinchè lo diventino.
“Nella relazione annuale del 1999, Jack Welch aveva scritto che la ‘E in ‘GE poteva stare per ‘E-Business’ e che la spinta alla digitalizzazione dava a GE ‘la trasparenza, l’eccitazione e il ronzio di una startup’. Ma un sistema di gestione ottimizzato per ottenere efficienze incrementali non poteva fare il salto dall’era industriale all’era dell’informazione.”
Questa è forse l’affermazione che più e meglio spiega la vicenda societaria e Strategica di GE. Welch è stato uno dei più grandi e illuminati manager-imprenditori (nel senso che ha lanciato “imprese” alla guida dell’azienda e non l’ha semplicemente gestita) del secolo scorso. Ha compreso l’ambiente di business dell’epoca e ha ottimizzato al meglio la relazione della GE con esso. Proprio la cultura ingegneristica dell’ottimizzazione, sviluppata e propagandata anche al di fuori dei confini aziendali (è lui l’inventore o il sostenitore di tante pratiche operative quali ad esempio lo Stack-Ranking e il Six-Sigma ), è stato il fattore del successo di quegli anni ma anche quello del declino in quelli successivi. Essa ha creato un DNA aziendale, in termini di mentalità e pratiche operative, che rendevano la GE incapace di realizzare ciò che Welch pure aveva intuito, guarda caso ad un paio di anni dalla sua uscita. Chi gli è succeduto non è stato capace di far altro che continuare a mantenere tale cultura.
“Il mito che il ‘grande management’ possa fare sempre miracoli è al tramonto”.
È la conclusione dell’articolo che giustamente apre ad un concetto di management nuovo e profondamente diverso da quello che abbiamo conosciuto in passato e che a fatto il suo tempo, come risultati non più brillanti dimostrano.
Per arrivare a tale nuovo management però bisogna, a mio parere, percorrere la strada indicata da Niels Bohr, padre della meccanica quantistica, quando di fronte alle difficolta concettuali totalmente nuove dell’infinitamente piccolo, affermava:
“Molto deve essere disimparato se si deve segnare un nuovo inizio”
Luciano Martinoli