Chi produce l’innovazione?

9 aprile 2021

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E’ noto come Steve Jobs abbia cambiato la vita di tutti noi inventando l’iphone. Grazie ad esso è stato creato un mercato mondiale, prima inesistente, anche di prodotti simili, disponibili per tutte le tasche perché meno costosi. Dunque è a causa della determinazione di piegare il mondo alla sua visione che abbiamo potuto godere dei vantaggi di questa mirabile invenzione. Fin qui la leggenda.

Pochi invece sanno che Jobs ha insistito per anni che non avrebbe mai fatto un telefono. E’ solo grazie all’insistenza del suo team che alla fine si persuase, ma solo a condizione che lo smart-phone non avesse contenuto mai apps esterne. Ci volle un altro anno per convincerlo a rinunciare a questo divieto e nel giro di nove mesi l’App Store, il sito dove scaricare le app, aveva più di un miliardo di download. Dieci anni dopo l’iphone generava da solo più di mille miliardi di dollari di fatturato.

Ancora prima, nel 1995, Microsoft rilasciò il suo primo sistema operativo basato su finestre, puntatori, menù e icone: Windows 95. Purtroppo non conteneva alcun software che consentisse agli utenti di collegarsi ad internet. Era necessario scaricare un browser esterno, Netscape, altrimenti la rete sarebbe rimasta sconosciuta agli utilizzatori di Windows. Solo dopo fu reso disponibile il proprio browser, Explorer. Gates all’inizio era molto scettico sul futuro della rete. Furono i suoi collaboratori che sudarono sette camicie per fargli capire quali erano le opportunità, e le minacce nel caso non fossero state sfruttate, che offriva Internet. Successivamente Gates divenne un visionario del futuro della rete anche attraverso i suoi libri.

Queste due storie dimostrano ancora una volta che per generare profonde innovazioni non basta un leader visionario e carismatico. Il modello del macho-manager ovvero l’uomo, ma anche la donna, che sa tutto, che non accetta consigli e contrasti alle sue opinioni, non fa altro che creare un ossimoro organizzativo: rafforza la sua debolezza e quella dell’intera organizzazione. Questa tipologia di manager fissa i limiti della sua organizzazione uguali ai suoi personali, perdendo il beneficio che deriva dal liberare la creatività degli altri. Inoltre, per poter realizzare questo disegno, è costretto a circondarsi di persone che supportano questo solipsismo: gli yes-men. Costoro non sono interessati al progresso organizzativo, che non è possibile tramite il loro contributo, ma solo al tornaconto personale che deriva dal supporto al capo. In questo modo si accelera l’inevitabile scontro con la realtà, che prima o poi arriva, rendendolo più drammatico.

Jobs e Gates, ripeto: come tanti altri, sono stati leader capaci perché si sono circondati di persone che guardavano fuori i confini necessariamente ristretti dell’organizzazione. I loro collaboratori erano in grado di mettere a punto elaborazioni proprie, che riuscivano a sostenere in un confronto franco ma anche determinato. E’ anche grazie a loro dunque che Apple e Microsoft devono la loro fortuna, non solo ai loro fondatori.

Purtroppo la frequente banalizzazione della prospettiva organizzativa porta a considerare il “capo” come l’ingrediente principale per un suo buon funzionamento nel generare innovazione. Questo è motivato anche dalla semplicità con la quale chi decide di scegliere un capo può avvantaggiarsi: se ha fatto bene in un posto farà altrettanto bene qui.

Se ci si convince invece che la sua presenza è solo un catalizzatore della prestazione organizzativa, e non la sua unica causa, si arriverà presto a scoprire quanto questo approccio sia sbagliato, osservando, come spesso accade, che il “capo” è giusto o sbagliato non solo in virtù delle sue capacità ma anche in dipendenza di quanto queste corrispondano alle caratteristiche dell’organizzazione che è chiamata a produrre innovazione.

Si obietterà che è questo il motivo per il quale si lascia al responsabile di circondarsi di collaboratori di suo gradimento. Ma quale è il costo per l’organizzazione? Chi valuta la perdita di know-how ed esperienza per il semplice gusto di avere di fianco qualcuno con il quale “si va d’accordo”, perché incapaci di cucinare con gli ingredienti che si hanno a disposizione? L’innovazione parte o passa, a meno che non si tratti di una startup che nasce da zero, sempre da ciò che si sta facendo in quel momento. Cambiare tutto è possibile, ma lo si deve dichiarare all’inizio per valutarne prima i costi, e i rischi, e non presentarli in corso d’opera e, come spesso accade, in mancanza di risultati.

Generare innovazione dunque è un processo vasto, che coinvolge tutti gli attori organizzativi, può partire da qualsiasi parte e deve essere distillata opportunamente con ampi e onesti dibattiti. Il “capo”, in questa prospettiva, non è allora il genio che le pensa la notte ma un attento “allevatore” che stimola, indirizza e protegge il delicato, instabile, misterioso e incerto processo organizzativo che, solo esso, può realizzare la vera innovazione non banale.

Luciano Martinoli