Chi non è sui social non esiste (neanche in azienda?)

2 aprile 2021

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Partecipavo, come immagino gran parte di tutti noi, ad una chat di gruppo su Whatsapp con vecchi amici di scuola. Quando ho avuto la possibilità di leggere le norme di privacy adottate da Facebook su questa sua piattaforma, che di fatto lo trasformavano in una sorta di virus acchiappadati (non del contenuto dei messaggi ma i metadati: destinatario, mittente di quelli ricevuti, ora, luogo in cui mi trovo, e altro indipendentemente dal fatto che lo si usi o meno), ho disinstallato l’app.

L’amministratore del gruppo, mio carissimo amico, si è premurato di verificare il motivo di questo mio allontanamento temendo un mio disappunto per qualche discussione accesa o qualche malinteso instauratosi durante una di queste. L’ho tranquillizzato dicendogli che non sono uscito dal gruppo ma semplicemente ho disinstallato Whatsapp. Gli ho comunicato le motivazioni della mia decisione e l’ho invitato a ricostituire il gruppo su piattaforma più idonea a preservare la privacy, ad esempio Signal (che ho adottato io). Ovviamente non è accaduto nulla e ognuno ha continuato ad utilizzare lo strumento che riteneva più comodo.

Il mio caro amico, preoccupato da questo mio isolamento “mediatico” e pur comprendendo le ragioni addotte, ha provveduto ad inserire nel gruppo da lui amministrato mia moglie, che continua ad usare Whatsapp, presentandola agli altri col seguente messaggio: “Visto che ha deciso (io) di fare l’eremita su Signal, vi presento sua moglie così potrà fargli leggere i vostri messaggi”.

 


“Perchè usiamo i social visti i rischi per la privacy e che nessuno ci obbliga a farlo?”

Ovviamente ho apprezzato le buone intenzioni di questa iniziativa, consentirmi di non essere isolato, ma mi ha colpito la naturalezza con la quale mi ha etichettato come “eremita”, evidentemente ben consapevole di essere compreso dagli altri. Eppure continuiamo a vederci, Covid permettendo, e sentirci quasi ogni settimana. Ne ho dedotto che avere installato Whatsapp  sul proprio telefonino è necessario come disporre del certificato di esistenza in vita per alcune pratiche amministrative: se non lo possiedi non esisti, indipendentemente dal fatto che respiri ancora!  

Sulla pervasività di queste tecnologie e le sue nefaste conseguenze sulla privacy e la vita di tutti noi, si è abbondantemente parlato. Così come pure sulla (presunta) maligna progettazione di tali strumenti di piegarci ai voleri delle aziende che ce li propinano, e che si arricchiscono per questo. Rimane però finora escluso dal dibattito il perché li usiamo, considerando che nessuno ci obbliga a farlo e che fino adesso non vi è stata nessuna martellante pubblicità che ci invitava a farlo.

Certamente poter essere in contatto con gli altri è importante, ma vi sono anche altri modi per farlo. In questo periodo di pandemia sentiamo forte la mancanza del contatto fisico degli altri, il sentire la loro presenza nel nostro stesso spazio. Ma la “presenza” nello spazio virtuale è ugualmente sentita, tanto da auspicare, come ritorno alla normalità, una situazione di convivenza tra mondo fisico e quello della rete come ironicamente auspica la vignetta iniziale.

Una possibile spiegazione del fenomeno viene da un filone di pensiero della Sociologia(1) secondo la quale dall’invenzione della stampa in poi la nostra società è diventata una società di osservazione del secondo ordine. Cosa vuol dire? Semplicemente che non osserviamo direttamente il mondo ma chi lo fa per noi. Un romanzo ci offre la vista del suo autore su una storia, vera o inventata, in virtù di come è scritta. Un regista ci propone la sua visione di una vicenda attraverso le inquadrature delle scene e il modo con il quale indirizza gli attori a dire le battute in un film. Veniamo a conoscenza dei fatti del mondo per come vengono osservati e raccontati dai giornalisti, nessuno di noi è presente sulla scena di quegli eventi per farsene un’opinione di “prima” mano. Abbiamo accettato questa tendenza perché se da un lato limita la nostra capacità di giudizio alle modalità con le quali ci viene presentato il mondo da un terzo (che è colui che effettua l’osservazione di primo ordine), dall’altro riusciamo a venire a conoscenza di molte più cose di quanto non saremmo in grado di fare da soli.

I media però, fino a ieri, hanno anche consentito ai pochi fortunati che riuscivano ad averne accesso di farsi osservare dagli altri e, conseguentemente, permettergli di osservare come venivano osservati (con tutte le conseguenze). Personaggi famosi, Vip, star del cinema e dello sport una volta “ripresi” dovevano poi tarare i loro comportamenti successivi sulle reazioni di chi li aveva osservati sui media. Alcuni, per non sottostare a questa dittatura dell’apparire, cercavano di sottrarsi, altri la utilizzavano per costruire un loro profilo che andavano costantemente a monitorare e rettificare secondo le reazioni e richieste dei loro osservatori. Di fatto erano ciò che gli altri osservavano e volevano osservare.

L’avvento di internet e delle piattaforme social ha abbattuto l’ultimo ostacolo che limitava l’accesso ai media a pochi privilegiati. Oggi grazie a Facebook, Whatsapp, Istagram, Twitter, eccetera chiunque può sottoporsi al giudizio degli altri, presentandosi come meglio crede, e osservare come viene osservato diventando per tutti quello che è il suo profilo. Il profilo è curato e studiato al fine di apparire nel miglior modo possibile dove la misura di tale “miglior modo” è il numero dei likes, dei follower, dei commenti positivi. Laddove questi calano si capisce che non siamo accettati o quantomeno considerati per come ci siamo proposti. A noi allora la scelta di decidere se essere marginalizzati o cercare di rientrare nel favore degli altri.

Giusto o sbagliato che sia ormai questa è la realtà, una realtà che abbiamo costruito noi grazie alle tecnologie social e non il contrario. Detto in altri termini, se i cosiddetti social non ci fossero, bisognerebbe inventarli per poter dar luogo, in maniera ampia, democratica ma anche discrezionale, all’esercizio della osservazione del secondo ordine su ognuno di noi che lo voglia e la costruzione dei profili necessari alla vita sociale.

Anche nelle aziende fa il timido ingresso questo approccio, soppiantando pian piano quella valutazione delle performance che altro non è che la periodica aggiornata ricostruzione dell’identità professionale del singolo a beneficio dell’organizzazione. L’esercizio infatti è da sempre ritenuto, da chi è chiamato a praticarlo, uno stucchevole e noioso rituale totalmente inutile. Infatti il valutatore sa perfettamente chi è e cosa può fare il valutato ma lo deve rappresentare solo per farlo sapere al resto dell’organizzazione (livelli gerarchici superiori, ufficio del personale, altri pezzi dell’organizzazione e altri). Ma se l’esigenza è questa, perché non se ne occupa direttamente l’organizzazione utilizzando le stesse metodologie di profilazione già utilizzate nel resto della società?  

L’esercizio non sarebbe certo privo di rischi e ne dovrebbe essere attentamente studiata la somministrazione, ma proprio perché ormai il lavoro è “sociale” e nessuno sarebbe in grado di dire esattamente quale è il contributo del singolo indipendentemente dal contesto in cui lavora, appare logico procedere nella direzione in cui sia lo stesso sociale a valutare il singolo, e non il capo o pochi altri.

Si tratta indubbiamente di una innovazione ma certamente più sensata dell’introduzione fittizia di algoritmi pseudo intelligenti con la promessa di scoprire l’insondabile ma con la certezza di mostrare ciò per i quali sono stati precedentemente programmati. L’elaboratore più potente e utile ad una specifica organizzazione è l’organizzazione stessa.

Luciano Martinoli

(1) Teoria dei Sistemi Sociali di N.Luhmann