A cosa serve l’azienda? Dalla Teoria dei Sistemi Sociali al Diritto Societario

di

Luciano Martinoli
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29 novembre 2019

Da un punto di vista della Teoria dei Sistemi Sociali, l’organizzazione aziendale è una macchina decisionale. Le decisioni vengono prese quotidianamente a tutti i livelli, dal direttore generale all’ultimo dipendente ognuno nel proprio ambito. La loro funzione è assorbire l’incertezza dall’ambiente in cui si opera. Una decisione però non è mai definitiva in quanto essendo tale ambiente imprevedibile e in costante cambiamento, produrrà di continuo nuova incertezza. L’organizzazione, con la sua rete di decisioni, reagirà ad essa continuando a decidere e, così facendo, manterrà la sua esistenza. In parole povere: senza incertezza non vi è bisogno di decisioni e, da qui, di organizzazioni.

La decisione è caratterizzata dalla scelta su opzioni equivalenti, dunque la possibilità di scelta è contraddistinta da ambiguità. “Se ci fosse una qualsiasi sicura conoscenza su come decidere, non ci sarebbe una scelta. Avere una  scelta significa non sapere cosa fare” (Armin Nassehi).
Ultima, ma non meno importante conseguenza, è che le organizzazioni, anche quelle aziendali, essendo sistemi che si costruiscono da soli con le loro operazioni-decisioni, specifiche di ogni singolo soggetto, non perseguono uno scopo se per scopo si intende un obiettivo o un interesse esterno a loro stesse.

Augurandomi di essere perdonato per la brevità e superficialità, spero non inesattezza, di quanto riassunto fin qui, andiamo a vedere, con termini diversi, cosa viene detto a proposito dell’azienda da un altro punto di vista: quello del Diritto Societario.

 Lo spunto viene dalle pagine della “Voce degli Indipendenti” dove il Professor Ventoruzzo recensisce il libro “Potere e interessi nella grande impresa azionaria”, di Umberto Tombari, Ed. Giuffrè e aggiunge alcune interessanti riflessioni per il nostro scopo. Ovviamente la terminologia è un po’ diversa dal gergo organizzativo, ma il senso rimane, a mio parere, lo stesso.

  “…il potere è essenzialmente scelta tra interessi diversi…possiamo aggiungere che non esiste potere senza ambiguità circa gli interessi da perseguire.”

 Per “potere” qui e più avanti si intende, a mio avviso, “potere decisionale” come appare chiaro dal contesto. E’ evidente la definizione in altri termini di quanto affermato prima: decidere significa fare scelte ambigue, optare tra alternative equivalenti.
Quanto questo processo decisionale ambiguo sia indispensabile viene poi chiarito in questi termini: questa ambiguità è “necessaria”, nel senso proprio del termine, per lo stesso fatto che gli amministratori esercitano – e devono esercitare – un potere (decisionale) in condizioni di incompletezza contrattuale”.
Dunque ambiguità derivante da una condizione strutturale in virtù di quella “incompletezza contrattuale” che altro non è che la costante e perdurante incertezza dell’ambiente di business nel quale l’azienda opera. Il giurista ovviamente si occupa dei soggetti con rilevanza giuridica, ma è facile immaginare quanto questo allarghi il perimetro a tutti coloro ai quali gli amministratori concedono deleghe di rappresentanza, dunque potenzialmente a consistente parte dell’organizzazione.  

 “…il procedimento di scelta tra gli stessi (interessi) è al cuore dell’attività gestionale e ne è il metro di valutazione, che volerlo imbrigliare a priori rischia di essere, se non concettualmente sbagliato o dannoso, quantomeno inutile e inefficace.”

Viene sottolineato ancora come “il procedimento di scelta”, dunque la rete di decisioni, sia “al cuore dell’attività gestionale”. Addirittura ne è “il metro di valutazione” come a dire che l’organizzazione aziendale, qui in termini dei suoi vertici ma è facile allargarli a tutta quanta, è valutabile per come decide e quanto tali decisioni ne consentono la sua sopravvivenza. Non scopi esterni dunque, ma capacità interna di sopravvivere nell’ambiente grazie alle decisioni.

“…Gli amministratori devono realizzare il programma d’impresa enunciato nell’oggetto sociale, tenendo conto e bilanciando diversi interessi. Essi possono e in molti casi devono dare rilievo a fini diversi dal lucro dei soci – apprezzamento dei consumatori, rispetto dell’ambiente, benessere dei lavoratori, vita della comunità in cui l’impresa agisce – se funzionali alla sopravvivenza dell’ente, e lo devono fare nello stesso interesse degli azionisti.”

Qui il richiamo è ad un recente dibattito sulla necessità dell’azienda di non avere più come esclusivo interesse primario la remunerazione degli azionisti o shareholder value. E’ evidente a mio avviso che l’affermazione finale sullo “stesso interesse degli azionisti” è una rinuncia agli scopi dell’azienda con priorità alla sua sopravvivenza nel tempo possibile solo con la convivenza proficua (accoppiamento strutturale in termini sistemici) con l’ambiente e i vincoli che pone. Tra questi senz’altro, ma in modo non esclusivo e prioritario, quello degli interessi degli azionisti. Un ribaltamento di prospettiva che dovrebbe consentire di terminare gli  infiniti dibattiti su cosa sia, a cosa e chi serva l’azienda.

“…Il loro potere-dovere (decisionale) consiste innanzitutto nell’individuare e bilanciare questi interessi. È, per sua natura, un potere ampio che le esigenze della vita aziendale impediscono di racchiudere in un algoritmo, in una formula, affidare a un sistema di intelligenza artificiale… È più facile individuarne ex post e in negativo violazioni, che definirne ex ante i contenuti.”
E’ un’affermazione forte che condivido in pieno e fa giustizia di tanti proclami e profezie inutili sul ruolo di una certa tecnologia in questi ambiti, laddove utilissima in altri. Inoltre sottolinea un’altra caratteristica delle organizzazioni e del loro metabolismo (autopoiesi) decisionale: la possibilità di ricavarne senso e significato, nel bene e nel male, solo successivamente.

In conclusione dunque non è possibile dare ricette e metodi da perseguire in modo calcolabile e pedante per una corretta gestione aziendale a qualsiasi livello si intenda, dagli amministratori in giù. Obiettivi e scopi possono avere solo una funzione di “movimento”, utili paraocchi per indirizzare l’azione aziendale in una certa direzione, consapevoli che non la raggiungerà mai (altrimenti l’azienda sarebbe solo un “progetto” e raggiunto lo scopo andrebbe liquidata). E’ allora opportuno avere un quadro di riferimento chiaro e ampio che dia conto di queste “contraddizioni necessarie” entro il quale si deve svolgere la vita dell’azienda, dagli amministratori all’ultimo dipendente. Ci sono arrivate sia la Teoria dei Sistemi Sociali che il Diritto societario.  

Luciano Martinoli

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